Maele, pesa poco più di due chili. È nata venerdì scorso ad Haiti, alla vigilia dell’anniversario di uno dei più devastanti terremoti dell’ultimo secolo, quello che il 12 gennaio del 2010 polverizzò Port- au- Prince, la capitale, e devastò gran parte dell’isola.

La sua nascita è un piccolo miracolo in un paese con la mortalità materna e infantile più alto della regione. Circa 500 donne muoiono di parto ogni 100mila bambini nati, come ricorda la presidente di Medici senza Frontiere Claudia Lodesani che dieci anni fa era ad Haiti a prestare i primi soccorsi alla popolazione.

Venerdì scorso Maele è venuta alla luce proprio in un’ambulanza di Msf dopo che sua madre era stata rifiutata da tre ospedali. Gli operatori che l’avevano soccorsa si sono fermati in un parcheggio. Ed è li che la giovane, in pieno travaglio, ha partorito.

Il Sistema Sanitario haitiano è al collasso. La scossa di 7 gradi Richter, oltre a causare la morte di 230mila persone che lungo una diagonale di 25 chilometri in direzione ovest- sud- ovest non ebbero scampo, distrusse il 60% delle strutture ospedaliere.

Da allora, nonostante la corsa agli aiuti umanitari dei primi mesi, poco è stato fatto per la ricostruzione materiale e sociale dell’isola caraibica.

Gli annunci del post- terremoto, su tutti il “built back better” promesso in prima persona da Bill Clinton, nominato dalle Nazioni Unite commissario speciale per la ricostruzione, organismo che aveva quali principali Stati donatori gli Usa, si sono ben presto affievoliti.

Un decennio dopo il sisma, l’unico dato tangibile è l’imbarazzante e pressoché totale disinteresse della comunità internazionale verso il destino di milioni di sfollati. Nella tragedia della devastazione ciò che più colpisce, passeggiando lungo le strade ancora piene di crepe e di buche di Port- au- Prince, è la mancanza di speranza tra la gente. La rassegnazione, impastata con la rabbia e la disperazione, è palpabile.

Lontana dai riflettori, che restano spenti anche nell’anniversario di uno dei disastri naturali più gravi della storia, Haiti è segnata da una forte ondata di violenza dovuta a fattori politici e socioeconomici che hanno acuito la già grave crisi nel Paese che nel 2018 aveva portato al rincaro dei prezzi del carburante. In migliaia da mesi scendono in piazza per chiedere le dimissioni del presidente Jovenel Moise.

A conferma della gravità della situazione la preoccupazione espressa dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per l'impasse politica in cui si trova Haiti. L'Onu ha chiesto con decisione alle autorità haitiane di avviare un dialogo inclusivo e aperto per formare un nuovo governo che «risponda ai bisogni del popolo che non può più attendere» . I ripetuti scontri e l’insicurezza crescente hanno determinato la chiusura di scuole e università. Stessa sorte per gli ospedali, quelli attivi operano al minimo. Al moltiplicarsi delle manifestazioni di massa sono seguite repressioni brutali da parte delle forze di sicurezza con centinaia di morti.

Non c’è forma di dissenso che si manifesti senza violenza. Il tutto ha portato a un aumento significativo dell’uso delle armi.

Nell’ultimo anno Medici Senza Frontiere, tra le poche organizzazioni che continuano a operare sul campo e che il 12 gennaio del 2010 ha perso 12 operatori, ha trattato migliaia di pazienti con ferite da arma da fuoco. arrivati nel centro per le cure d’emergenza nella baraccopoli di Martissant.

Numeri impressionati, il doppio rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.

Le tensioni sono in crescendo e quasi ogni giorno si susseguono violenze non solo nella capitale ma anche in altre grandi città, come Les Cayes e Gonaïves.

Il declino costante del potere d’acquisto degli haitiani causato dalla svalutazione della moneta, in un contesto di stallo delle istituzioni e di una corruzione dilagante, ha ridotto alla totale povertà la maggioranza della popolazione.

“I manifestanti hanno eretto barricate nelle strade principali. racconta Lindis Hurum, capomissione di MSF a Haiti - Rabbia, paura e disperazione sono palpabili ovunque. Le strade di Port- au- Prince, normalmente trafficatissime, adesso sono vuote perché gli abitanti hanno paura di improvvise esplosioni di violenza. Nessuno si sente al sicuro, incluse le nostre équipe mediche, che hanno affrontato gravi incidenti di sicurezza”.

L’organizzazione, nonostante il clima sempre più violento renda difficile l’azione di sostegno al sistema sanitario pubblico, fornisce assistenza con i pochi fondi, lo staff e il materiale a disposizione.

La mancanza di sicurezza limita i movimenti del personale medico e il trasporto di attrezzature, sangue e medicinali.

«Questa crisi ha ulteriormente indebolito una situazione sanitaria già fragile, aumentando potenzialmente il tasso di mortalità – sostiene Hurum – Da un lato, non ci sono abbastanza medici, farmaci e forniture essenziali come ossigeno ed elettricità. Dall’altro aumentano i pazienti che non possono permettersi di andare in strutture private. Ci sono tutti gli elementi per un disastro umanitario irreversibile».

Gli operatori lavorano giorno e notte per salvare vite in un contesto molto teso che mette a repentaglio la loro stessa incolumità «Quando arrivano i pazienti, li stabilizziamo e forniamo le prime cure, ma non siamo un ospedale e abbiamo bisogno di un’organizzazione efficace di trasferimenti per assicurare assistenza medica più avanzata a pazienti con traumi multipli» conclude il coordinatore del centro di Martissant, uno dei pochi pronto soccorso aperti 24 ore su 24. La grave crisi politica ed economica ad Haiti ha messo a dura prova l’intero sistema sociale sanitario del Paese, già ridotto ai minimi termini.

Senza le ong internazionali che operano sul campo l’isola sarebbe totalmente abbandonata a se stessa.