Nicola Zingaretti c’è riuscito: ha unito il Pd sotto l’egida di una linea votata all’unanimità: apertura ai 5 Stelle, ma senza contratti e a partire da cinque capisaldi.

Di governo politico si potrà parlare solo dopo che un premier giurerà davanti a Sergio mattarella, ma ieri il Pd ha fatto il passo avanti che era condizione necessaria e pietra angolare di un accordo coi grillini. Di più, lo ha fatto all’unanimità in una direzione che ha approvato con applauso da Maria Elena Boschi a Cesare Damiano - la relazione di Nicola Zingaretti.

Al segretario, dunque, sembra riuscito quello che sembrava lunare ( soprattutto dopo essere rimasto in silenzio per giorni mentre i suoi riempivano i titoli dei giornali): dettare la linea del partito e ricevere pieni poteri per prospettarla al Colle durante le consultazioni e ai potenziali alleati grillini. Non solo: anche i dirigenti più scettici sull’ipotesi di un governo politico coi 5 Stelle ieri si sono piegati e, anzi, hanno pubblicamente condiviso l’intervento del segretario.

Questi i termini del potenziale accordo: il punto di partenza di ogni confronto deve essere la «la mostruosa manovra di bilancio», in cui «la clausola IVA da sola vale 23 miliardi» e «aggiungendo altre spese inderogabili, si arriva quasi a 30 miliardi senza fare nulla di nuovo per sviluppo e crescita». Poi servirà un nuovo metodo: «il “contratto” è stato un errore», perchè «una somma di provvedimenti partoriti da due programmi alternativi hanno via via aperto una competizione tra Lega e 5 stelle».

Il Pd chiederà a «tutti i potenziali compagni di viaggio» di accettare la sfida di darsi «tra forze diverse, una visione condivisa di futuro per il Paese». In questa visione, i punti inderogabili sono «l’impegno e l’appartenenza leale all’UE per una Europa profondamente rinnovata, del lavoro, dei diritti e dei doveri, delle libertà, della solidarietà e della sostenibilità ambientale e sociale, del rispetto della dignità umana in ogni sua espressione» ; «il pieno riconoscimento della democrazia rappresentativa» ; «l’investimento su una diversa stagione dello sviluppo fondato sulla sostenibilità ambientale» ; «una svolta profonda nell’organizzazione e gestione dei flussi migratori fondata sui principi di solidarietà, legalità e sicurezza» ; «una svolta delle ricette economiche e sociali che riapra una stagione di investimenti pubblici e privati».

Cinque punti, per «chiudere la strategia del populismo ed affermare con chiarezza le ragioni della democrazia liberale e l’orizzonte europeo».

La strategia di Zingaretti è chiara: nessun contratto con sospetto di giocare al “do ut des” coi 5 Stelle, come ha fatto la Lega. Ma soprattutto, nessuna fretta nel calare le carte: il mantra è verificare «se esiste la possibilità di dar vita a una nuova maggioranza parlamentare in grado di dare risposte vere e serie ai problemi del Paese», ovvero non un governo di qualche mese, ma con ampio respiro. Con una parola d’ordine: discontinuità. Se queste condizioni non si verificassero o non fossero accolte dai 5 Stelle, «nessun pastrocchio o accordicchio temporeggiatore e subito al voto».

Una posizione espressa in modo articolato, quella del segretario, che ha anche ribadito come per questo progetto sia di «fondamentale importanza l’unità del Pd», perchè «la salvaguardia della nostra democrazia passa in gran parte per la tenuta del nostro partito, o come pilastro importante di una governo o baricentro di un alternativa possibile da costruire».

E, almeno per ora, i ranghi tengono: rientrate le posizioni contrarie a qualsiasi accordo, si allineano anche i renziani. Lui, Matteo Renzi che durante il confronto in aula con il dimissionario Conte si è ripreso spazio e palcoscenico, è assente. Al suo posto c’è Maria Elena Boschi, spesso chiamata in causa da Salvini, che conferma che non sarà in nessun governo, «posso votare la fiducia se ci sarà l’ipotesi di un governo da sostenere, darò una mano sui contenuti ma al governo con i 5 Stelle ma anche no». Un’ipotesi, per altro, nel solco di quello tracciato nei giorni scorsi dallo stesso Renzi, oltre che da Prodi e Bettini.

Ora la palla passa ai 5 Stelle: i pontieri che hanno febbrilmente lavorato in questi giorni hanno intensificato i contati con i dem, ma nulla è ancora scontato. Costruire un nuovo governo è complicato e in ballo ci sono due figure ingombranti quanto problematiche: quella di Giuseppe Conte, osannato ieri dai supporter grillini davanti al Senato ma a cui i dem hanno già sbarrato tutte le porte, e quella di Luigi Di Maio, le cui sorti nel Movimento sono quantomai incerte, in quanto principale azionista politico del precedente esecutivo gialloverde.

Insomma, se e quando si chiuderà il rebus sulla forma di governo ( se istituzionale o politico, se di legislatura o di scopo), si aprirà quello più delicato dei ruoli. Chi rimarrà, chi lascerà i ministeri e soprattutto chi siederà a Palazzo Chigi e a via XX Settembre, da dove verrà gestita la manovra di Bilancio.

Intanto, però, qualche primo paletto è stato messo e il Pd ha ritrovato una linea: «Insieme, credetemi, dimostreremo di essere all’altezza del tempo che abbiamo davanti», è stata la promessa del segretario.