Nei processi per stupro la vittima si trasforma in imputata, perché una donna onesta non può subire violenza sessuale. Era la morale comune in Italia, nel 1978, e lo stesso valeva anche in tutto il resto del mondo occidentale: a testimoniarlo, le donne riunite alla Casa delle donne di Roma, dove si svolgeva il convegno internazionale “Violenza contro le donne”. Emerse con forza il fatto che una donna, se chiamava davanti a un giudice colui o coloro che le avevano usato violenza sessuale, diventava lei stessa oggetto del processo con domande sulla sua vita personale, sulla sua sfera intima, sui suoi comportamenti e sulla sua rettitudine morale. Una realtà, questa, nascosta dietro le porte chiuse dei tribunali e tra le carte dei processi, ma scritta sulla pelle delle vittime. A rompere il silenzio, il 26 aprile 1979, fu un documentario trasmesso in seconda serata su Rai 2: “Processo per stupro”. Prodotto da sei giovani donne registe e programmiste della Rai, la pellicola dura 63 minuti e riprende lo svolgimento in tutte le sue parti di un processo per stupro, svoltosi nel 1978 presso il tribunale di Latina.

Gli imputati sono quattro uomini sulla quarantina, la parte lesa una ragazza di 18 anni di nome Fiorella, che conosceva uno di loro e che li denuncia per violenza carnale di gruppo. Come lei stessa racconterà, Fiorella era una lavoratrice in nero in cerca di un impiego. Per questo, aveva accettato l’invito dell’imputato che lei conosceva, Rocco Vallone, in una villa di Nettuno per discutere la possibilità di venire assunta come segretaria presso una ditta. Invece, in quella villa venne sequestrata e violentata per un intero pomeriggio da Vallone e da altri tre.

La ragazza li denunciò e, al momento dell’arresto, gli imputati ammisero i fatti per poi ritrattarli interamente durante l’interrogatorio. Durante l’istruttoria, invece, dichiararono che il rapporto sessuale era effettivamente avvenuto, ma dietro il compenso di 200 mila lire, che non era stato poi pagato perché i quattro non erano rimasti soddisfatti dalla prestazione.

Si apre così, “Processo per stupro”: parlando di soldi. I tre imputati ( uno si era reso latitante), infatti, depositarono in aula due milioni di lire, attraverso gli avvocati difensori, con l’intento di risarcire il danno. Fiorella, che aveva chiesto una lira come risarcimento simbolico, non li accettò.

Come era stato detto nel convegno femminista di un anno prima, davanti alle telecamere della Rai andò in scena non un processo contro gli imputati, ma un interrogatorio contro la vittima. Lentamente ma in modo sempre più chiaro di domanda in domanda, emerse la linea difensiva: una donna per bene non poteva essere violentata, se ci fosse stata una violenza avrebbero dovuto esserci dei segni mentre Fiorella non presentava lividi da percosse, dunque voleva dire che era consenziente. E, in ogni caso, se violenza era stata, a provocarla era stato l’atteggiamento sconveniente da parte della ragazza. Sul ban- co dei testimoni, furono chiamati a sfilare amici e conoscenti degli imputati, i quali dichiararono che Fiorella, anche se era fidanzata, si intratteneva liberamente al bar con altri uomini. Alla madre della vittima, venne chiesto come mai aveva permesso alla figlia di andare ad un appuntamento con un uomo che non le aveva presentato. A Fiorella, gli avvocati difensori chiesero di ripercorrere in dettaglio la violenza e si soffermarono in particolare sulla domanda “se c’era stata fellatio cum eiaculatione in ore”, chiedendo dettagli specifici sulle modalità.

In un’ora di documentario, l’Italia del 1979 assistette al processo non contro gli imputati di una violenza sessuale di gruppo, ma contro la donna. A dirlo, fu la stessa avvocata che difendeva Fiorella. Tina Lagostena Bassi, nella sua arringa, esordì parlando al giudice: «Credo che innanzitutto io debba spiegare una cosa: perché noi donne siamo presenti a questo processo. Per donne intendo prima di tutto Fiorella, poi le compagne presenti in aula, ed io, che sono qui prima di tutto come donna e poi come avvocato. Che significa questa nostra presenza? Ecco, noi chiediamo giustizia. Non vi chiediamo una condanna severa, pesante, esemplare, non c’interessa la condanna. Noi vogliamo che in questa aula ci sia resa giustizia, ed è una cosa diversa».

Lagostena Bassi puntò il dito contro un modo di condurre i processi per violenza sessuale, raccontando come «questo è l’ennesimo processo che io faccio, ed è come al solito la solita difesa che io sento. Io mi auguro di avere la forza di sentirli. Non sempre ce l’ho, lo confesso, la forza di sentirli, e di non dovermi vergognare, come donna e come avvocato, per la toga che tutti insieme portiamo. Perché la difesa è sacra, ed inviolabile, è vero. Ma nessuno di noi avvocati— e qui parlo come avvocato— si sognerebbe d’impostare una difesa per rapina come s’imposta un processo per violenza carnale».Poi, spiega che cosa intende: «Nessuno degli avvocati direbbe nel caso di quattro rapinatori che con la violenza entrano in una gioielleria e portano via le gioie, i beni patrimoniali da difendere, ebbene nessun avvocato si sognerebbe di cominciare la difesa, che comincia attraverso i primi suggerimenti dati agli imputati, di dire ai rapinatori «Vabbè, dite che però il gioielliere ha un passato poco chiaro, dite che il gioielliere in fondo ha ricettato, ha commesso reati di ricettazione, dite che il gioielliere è un usuraio, che specula, che guadagna, che evade le tasse!» ”.

Questo, invece, è esattamente ciò che è successo nel processo in cui Fiorella è la parte lesa: “Ed allora io mi chiedo, perché se invece che quattro oggetti d’oro, l’oggetto del reato è una donna in carne ed ossa, perché ci si permette di fare un processo alla ragazza? E questa è una prassi costante: il processo alla donna. La vera imputata è la donna. E scusatemi la franchezza, se si fa così, è solidarietà maschilista, perché solo se la donna viene trasformata in un’imputata, solo così si ottiene che non si facciano denunce per violenza carnale. Io non voglio parlare di Fiorella, secondo me è umiliare venire qui a dire «non è una puttana». Una donna ha il diritto di essere quello che vuole, senza bisogno di difensori. Io non sono il difensore della donna Fiorella. Io sono l’accusatore di un certo modo di fare processi per violenza”. E poi l’amara conclusione: “Quello che è successo qua dentro si commenta da solo, ed è il motivo per cui migliaia di donne non fanno le denunce, non si rivolgono alla giustizia”.Il processo di Latina diede ragione a Lagostena Bassi: gli avvocati difensori degli imputati, nelle loro arringhe difensive spiegarono che bisognava guardare i fatti: «Una violenza carnale con fellatio può essere interrotta con un morsetto. L'atto è incompatibile con l'ipotesi di una violenza. Lì il possesso è stato esercitato dalla ragazza sui masch. È lei che prende, è lei che è parte attiva, sono loro passivi, inermi, abbandonati, nelle fauci avide di costei!”, disse l’avvocato Giorgio Zeppieri.

Ancora, «Che cosa avete voluto? La parità dei diritti. Avete cominciato a scimmiottare l'uomo”, accusò l’avvocato Angelo Palmieri: “Avete cominciato con il dire «Abbiamo parità di diritto, perché io alle 9 di sera debbo stare a casa, mentre mio marito il mio fidanzato mio cugino mio fratello mio nonno mio bisnonno vanno in giro?» Vi siete messe voi in questa situazione. E allora ognuno purtroppo raccoglie i frutti che ha seminato”. La conclusione, dunque, è una sola: “Se questa ragazza si fosse stata a casa, se l'avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente».Il documentario termina con la sentenza: tre imputati condannati a un anno e otto mesi di reclusione, il quarto a due anni e quattro mesi. Tutti beneficiarono della libertà condizionale e il risarcimento del danno venne calcolato in due milioni di lire. Le stesse che avevano offerto gli imputati. Con “Processo per stupro”, però, si squarciò il velo di omertà sul pregiudizio sociale che accompagnava ogni processo per violenza sessuale. Il documentario venne visto da 3 milioni di persone e la Rai venne riempita di richieste di replica. Alla seconda messa in onda, nell’ottobre dello stesso anno e in prima serata, lo guardarono 9 milioni di spettatori. Più lenta ad adeguarsi fu la legislazione: solo nel 1981 il codice penale venne modificato, abrogando l’articolo 544 che ammetteva il “matrimonio riparatore”, che permetteva di estinguere il reato di violenza carnale, anche su minorenne, attraverso il matrimonio con la persona offesa. Addirittura, l’ordinamento italiano attese fino al 1996 per restituire alle donne vittime di violenza il titolo di persone. Fino a quell’anno, infatti, il reato di violenza sessuale era rubricato nel Codice Rocco nella sezione dei “delitti contro la moralità pubblica e il buon costume” e non in quella dei crimini contro la persona. In sostanza, fino alla fine degli anni Novanta, a stretta lettura di codice, lo stupro non era considerato una lesione contro la donna, ma contro la pubblica morale. La stessa, che nel 1979 riteneva che solo donne di facili costumi potessero subire violenza.