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LaPresse
Confermare la condanna di un anno e tre mesi inflitta in primo grado: è stata questa, ieri, la richiesta del procuratore generale di Brescia, Enrico Ceravone, nel processo d’appello a carico dell’ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo, accusato di rivelazione di segreto per aver fatto circolare i verbali di Piero Amara sulla presunta Loggia Ungheria, secondo i giudici di primo grado danneggiando la reputazione dell’ex amico e collega Sebastiano Ardita (parte civile nel processo, rappresentato dall’avvocato Fabio Repici), indicato falsamente come componente della Loggia.
Per il pg, l’assoluzione di Storari dalla stessa accusa non assolverebbe anche l’ex consigliere del Csm, «che ha preferito divulgare in colloqui privati gli atti di indagine milanesi» ritenuti dagli stessi ex colleghi dell'imputato «atti irricevibili», dato che furono trasmessi in modi non previsti dal regolamento. Davigo, infatti, sarebbe andato «oltre» i propri poteri aumentando «il pericolo di diffusione di un’indagine segreta», trasformando, con le sue plurime dichiarazioni, atti riservati nel «segreto di Pulcinella». Secondo il pg, la necessità di informare Davigo per superare la presunta inerzia della procura di Milano sarebbe una «narrazione ingannevole», data l’archiviazione dell’ex procuratore Francesco Greco e dell’aggiunto Laura Pedio, che furono indagati per omissione d’atti d’ufficio.
Al momento delle confidenze di Storari e della consegna dei verbali secretati a Davigo, ha aggiunto il pg, «era assolutamente chiaro che la consegna avveniva clandestinamente» e che si trattava di un «passaggio non rituale», in assenza di una ragione ufficiale «che legittimasse a svelare atti secretati». Insomma, «una gestione privata» di quegli atti con un «danno» per le indagini della procura di Milano.
Per il pg, nel caso di assoluzione di Davigo si potrebbe andare verso un «futuro distopico dove ogni singolo pm potrebbe consegnare atti secretati al singolo consigliere Csm con il rischio di trasformare il Csm da organo di tutela a luogo di amplificazione di ogni notizia di reato». Di diverso avviso Davide Steccanella e Francesco Borasi, difensori di Davigo: «Davigo poteva farsi i fatti suoi», ma «poco prima della pensione decide di non farsi i fatti suoi perché per lui è inaccettabile, ma non lo fa fuori dalla legge ma per ripristinare la legge, legge che in modo maniacale ha sempre difeso. Per lui non c’era altro da fare».
Secondo Steccanella, l’accusa «cerca un danno che non c’è stato» di fronte a un’inchiesta rimasta ferma per cinque mesi. «Siamo nel paradosso che, se fosse valida l’impostazione accusatoria, Davigo ha violato il segreto d’ufficio non per nuocere a un’indagine, ma per farla partire».