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Stefano Carmine De Michele
Potrebbe finalmente sbloccarsi lo stallo istituzionale sulla nomina del nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), rimasto vacante dopo le dimissioni di Giovanni Russo. Secondo quanto anticipato dal Fatto Quotidiano, a prendere quota è il nome di Stefano Carmine De Michele, attuale direttore generale delle risorse materiali e delle tecnologie del ministero della Giustizia. Un profilo estraneo al mondo penitenziario, la cui candidatura ha già sollevato perplessità tra gli operatori del settore e all’interno della Polizia penitenziaria.
Fino a poche settimane fa, la vicecapo Lina Di Domenico, attualmente facente funzione, sembrava destinata a succedere a Russo. Ma la modalità con cui il ministero della Giustizia ne aveva annunciato la nomina al Csm, senza un passaggio preventivo con il Quirinale – titolare formale della nomina in quanto capo delle Forze armate – aveva generato uno strappo istituzionale.
L’assenza di una deliberazione formale del Consiglio dei Ministri ha di fatto bloccato l’iter. Ora l’attenzione si sposta su De Michele, che però solleva nuovi interrogativi. «In un momento in cui il sistema carcerario vive una crisi strutturale – con oltre 61 mila detenuti a fronte di una capienza regolamentare inferiore ai 48 mila posti – appare incomprensibile scegliere un dirigente privo di esperienza diretta nel settore», osserva una fonte con incarichi passati al Dap. Secondo indiscrezioni, nomi inizialmente in campo come quelli di Sebastiano Ardita o Nicola Gratteri – entrambi considerati profili di alto spessore e con competenze specifiche – sarebbero stati accantonati per ragioni non tecniche.
Non solo. Fonti interne riferiscono che De Michele fosse inizialmente destinato alla Direzione generale dell’Organizzazione giudiziaria (Dog), rimasta vacante dopo il recente addio di Gaetano Campo. In un'improvvisa inversione di rotta, quel ruolo andrebbe invece ora a Lina Di Domenico, chiudendo un giro di nomine che molti leggono come puramente politico.
La scelta riaccende il dibattito più ampio sulle normative che regolano i magistrati fuori ruolo. L’attuale assetto normativo, che prevede un limite massimo di 10 anni fuori ruolo e un periodo di “quarantena” di 4 anni prima di poter assumere incarichi al rientro, disincentiva fortemente la partecipazione dei magistrati più preparati alla gestione amministrativa del ministero, con il risultato di «un impoverimento progressivo del capitale umano interno e una crescente dipendenza da figure esterne, spesso selezionate più per fedeltà che per merito», prosegue la fonte. Cosa che «solleva interrogativi seri sulla governance del ministero e sulla capacità dello Stato di attrarre e trattenere risorse qualificate nei gangli vitali dell’apparato giustizia. Una questione strutturale che rischia di produrre conseguenze durature in termini di efficienza, autorevolezza e capacità di riforma dell’intero sistema giudiziario italiano».