La guerra dei Trenta anni. Un ciclo si chiude, così come è iniziato, con l’apporto decisivo del Ros dei Carabinieri che, esattamente trenta anni or sono, si fecero carico praticamente da soli di dare la caccia agli assassini di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in un paese spaurito e attonito. Praticamente da soli, perché la cattura - il 15 gennaio 1993 - di Salvatore Riina ha rappresentato obiettivamente la Stalingrado dei Corleonesi, ha rinfrancato e dato speranza a una Nazione attonita, ha dato forza a chi aveva pensato con Antonino Caponnetto che tutto fosse finito con l’esplosivo di Capaci e via D’Amelio e che la mafia ormai avesse vinto.

È vero, ci sono state ancora le stragi del 1993, il paese e soprattutto alti vertici istituzionali hanno tremato e percepito il vento gelido della morte di mafia scorrere per le strade, ma è ormai chiaro a tutti che la cattura del “capo dei capi” aveva decapitato la piovra e lasciato “cosa nostra” senza il suo epicentro strategico e militare. Da allora solo arresti, sconfitte, decimazioni.

Ai carabinieri del Ros, in questi trenta anni, la Nazione o, meglio, lo Stato deve moltissimo e si dovrà pur scandagliare la ragione per cui solo gli uomini del nucleo concepito e voluto dal generale Dalla Chiesa – malgrado tutto - siano stati al centro di indagini, campagne di stampa, processi, teorie complottistiche. E ci si dovrà pur domandare perché solo catture decisive come quella di Salvatore Riina in Sicilia o di Pasquale Condello in Calabria abbiano indotto sospetti, accanimenti, retropensieri. Sarebbe - e ci si augura sarà - il tempo per riscrivere per intero quella storia e di capire cosa non abbia funzionato nelle interlocuzioni tra magistrati e carabinieri e per quale motivo, invece, altre catture siano state sempre innalzate agli onori della cronaca da proni coreuti senza dubbi e domande che erano pur lecite. Succederà anche stavolta forse. Sebbene sia difficile contestare il successo di ieri che ha una portata epocale sul versante della lotta a cosa nostra e che ammutolisce l’intera compagine mafiosa del paese. Se per le strade di Palermo i siciliani onesti hanno applaudito ai militari che ammanettavano Matteo Messina Denaro, nei reparti di massima sicurezza, nelle celle del 41-bis i capi delle cosche di ogni tipo avranno preso atto che lo Stato, alla fine, porta all’incasso i propri conti e non si concede pause o amnesie.

Per catturare Bin Laden i corpi speciali americani ci hanno impiegato dieci anni, per mettere le manette ai polsi dell’ultimo capo di “cosa nostra” dell’era stragista ne sono occorsi trenta; un tempo enorme, la maggior parte degli italiani di oggi o non era nata o aveva pochi anni. Eppure tutti percepiscono il successo e dovrebbero comprendere la svolta. Sulla epocale latitanza di Matteo Messina Denaro si sono dette cose per le quali in molti dovrebbero provare vergogna e chiedere scusa oggi. Illazioni, sospetti, dietrologie, l’ennesima cloaca di maleodoranti congetture che ammorbano da tempo la vita pubblica e impediscono una realistica presa d’atto dell’obiettiva rilevanza della forza delle Istituzioni e dei colpi mortali inferti ovunque alle mafie. Nel 1993 un esercito che rischiava di disperdersi e di indietreggiare venne rinfrancato da un manipolo di coraggiosi e di temerari; nel 2013 l’Arma consegna al paese un sonoro ed evidente “mission accomplished”, un chiaro “missione compiuta” che chiude un cerchio e consente alla collettività nazionale di fare finalmente un passo in avanti.

Un composto silenzio si imporrebbe a quanti hanno avvelenato i pozzi della storia e hanno di fatto impedito e rallentato di combattere il crimine organizzato nelle sue più moderne dimensioni, solo sfiorate da pochissime indagini. Alla politica il compito di dichiarare chiusa una fase storica di dolore e di sangue. “Declaring victory” è il messaggio da lanciare alla Nazione non perché si abbassi la guardia, ma perché si vadano finalmente a scovare i nuovi epigoni della corruzione mafiosa in santuari scomodi da aprire e dietro porte imbarazzanti da spalancare. Lasciate che i morti seppelliscano i morti e, con essi, le menzogne che hanno generato. Oggi sul sepolcro di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e dei tanti altri caduti con loro, soffia una brezza leggera e un raggio di sole riscalda le ossa di chi ha perso la vita per mano delle mafie.