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IL PALAZZO DELLA CORTE DI CASSAZIONE
Nel sempre più articolato equilibrio tra diritto all’informazione e diritto all’oblio, la prima sezione civile della Cassazione segna un nuovo punto fermo, ribaltando una decisione che aveva negato la deindicizzazione di alcuni “Url”, cioè indirizzi web, da parte di un noto motore di ricerca, contenenti notizie che continuavano ad associare il nome del ricorrente a un’indagine per mafia, nonostante la sua assoluzione definitiva. Con sentenza numero 14488/ 2025, depositata il 30 maggio scorso, la Suprema corte ha cassato con rinvio, sottolineando la necessità di un bilanciamento «effettivo e ragionevole» tra il diritto alla riservatezza e la libertà di cronaca, soprattutto quando in gioco c’è la reputazione di chi è stato riconosciuto innocente.
Il protagonista della vicenda giudiziaria era stato arrestato nel novembre del 2011 con l’accusa di associazione mafiosa, in quanto ritenuto vicino alla cosca di ’ndrangheta operativa nella zona dell’Expo di Milano. Dopo l’assoluzione in primo grado e la condanna in appello, la Cassazione, nel 2015, lo aveva definitivamente assolto da ogni addebito relativo all’appartenenza a un sodalizio criminale.
Tuttavia, digitando il suo nome sui motori di ricerca, continuavano ad apparire numerosi articoli di stampa che facevano riferimento alla fase iniziale delle indagini, omettendo l’esito finale del processo. Nel 2022, l’uomo aveva chiesto al motore di ricerca la rimozione (cioè la deindicizzazione) di 14 “Url” contenenti notizie che lo associavano al clan mafioso, invocando il diritto all’oblio sancito dall’articolo 17 del Regolamento europeo sulla protezione dei dati (Gdpr). Dopo una prima rimozione parziale, nel febbraio 2022 aveva constatato la persistenza di quattro link rimasti attivi. Di fronte al rifiuto del gestore del motore di ricerca, l’uomo aveva proposto ricorso.
Il Tribunale aveva rigettato la domanda per i quattro “Url” residui, sostenendo che il diritto all’oblio, pur essendo un diritto fondamentale, deve essere bilanciato con il diritto all’informazione e alla cronaca giudiziaria, tutelato dall’articolo 21 della Costituzione. Secondo i giudici di merito, la collettività avrebbe ancora un interesse attuale a conoscere le vicende giudiziarie dell’imprenditore, anche in considerazione della sua precedente candidatura alle elezioni comunali e del ruolo nel settore immobiliare.
Inoltre, avevano ritenuto non rilevante il tempo trascorso, individuando come “dies a quo” la data della sentenza di assoluzione del 2015 e non quella ben più remota della pubblicazione degli articoli (risalenti anche al 2010). La Cassazione ha accolto il ricorso, affermando che il Tribunale ha errato nel non tenere conto del fattore temporale e dell’esigenza di aggiornamento delle informazioni accessibili online. In particolare, i giudici hanno ritenuto che la sentenza impugnata non abbia adeguatamente considerato due profili fondamentali.
Il primo riguarda l’obsolescenza della notizia. Per gli ermellini, gli articoli in questione riportavano ancora l’accusa di affiliazione mafiosa, nonostante fosse stata superata da una sentenza definitiva di assoluzione. In particolare, tre dei quattro “Url” contestati continuavano a proporre l’uomo come esponente di un clan mafioso, ignorando del tutto l’esito del processo.
In secondo luogo, la Suprema corte ha rilevato l’assenza di un effettivo bilanciamento. Il Tribunale avrebbe dovuto esaminare se l’interesse della collettività a conoscere quella specifica notizia fosse ancora attuale, e se la permanenza del collegamento ipertestuale sui motori di ricerca fosse proporzionata rispetto al danno reputazionale subito dall’interessato. Inoltre, i contenuti contestati non contenevano alcuna nota che aggiornasse il lettore sull’esito finale del procedimento, né erano confinati agli archivi storici dei giornali, come invece suggerito dalla giurisprudenza consolidata.
La Cassazione, entrando nel merito della decisione, ha richiamato un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui il diritto all’oblio consiste nel non rimanere esposti senza limiti di tempo ad una rappresentazione non più attuale della propria persona. In poche parole, davanti a una notizia obsoleta, il soggetto ha diritto alla deindicizzazione se non ricopre un ruolo pubblico di rilievo e se non sussiste un interesse effettivo e concreto alla sua esposizione continua sul web.
Secondo i giudici, il fatto che il ricorrente si fosse candidato alle elezioni comunali e svolgesse attività imprenditoriale a livello locale non era sufficiente per attribuirgli lo status di personaggio pubblico di rilevanza nazionale.
In definitiva, una notizia accessibile online che non sia aggiornata e che non rifletta l’evoluzione giudiziaria successiva può ledere il diritto all’identità personale e alla riservatezza, e quindi deve essere rimossa o deindicizzata, a meno che non sussistano interessi pubblici prevalenti e concreti.