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Non si placa la polemica sulla nomina del presidente del Tribunale di Bergamo, Vito Di Vita. A riaccendere la miccia il togato indipendente Andrea Mirenda, che ha chiesto l’apertura di una pratica in prima Commissione per verificare la compatibilità ambientale e funzionale del magistrato. A destare sospetti, come già sottolineato durante il plenum che ha portato alla nomina di Di Vita, il fatto che il fratello, due figli e la cognata, nonché altri professionisti siano iscritti al Coa di Bergamo e operanti nel medesimo circondario sotto la forma di studio associato (Di Vita-Lenzini), che esercita anche nel settore del diritto civile, come evidenziato dalla home page dello studio, che riporta la seguente descrizione: «Assistenza legale giudiziale e stragiudiziale in favore di privati, aziende e enti pubblici, nei settori: famiglia, lavoro-contrattualistica, recupero crediti, risarcimento del danno». Il sito dello studio, peraltro, era sparito dal web poco prima della nomina, per poi riapparire il giorno stesso in cui si è tenuto il plenum.
Mirenda ha anche chiesto di verificare se Di Vita abbia rispettato l’obbligo di presentare la dichiarazione prevista dall’articolo 46, lett. e) della Circolare 2007/12940, dopo essere stato nominato presidente facente funzione del Tribunale di Bergamo a marzo scorso. In base a questa norma, infatti, un magistrato deve dichiarare eventuali situazioni rilevanti che possano sorgere durante il suo incarico o qualsiasi cambiamento rispetto a quanto già dichiarato in precedenza. La richiesta di verifica riguarda anche la possibilità che siano necessari gli adempimenti previsti dagli articoli 48 e 49 della stessa Circolare, ovvero il dovere di verità e l’obbligo di segnalazione disciplinare in caso di mancato adempimento.
La nomina di Vito Di Vita ha provocato più di una polemica in plenum, lo scorso 18 settembre, soprattutto per voce degli indipendenti, che hanno contestato, di fatto, i «due pesi e due misure» usati tra questo caso e quello di Roberto Spanò, giudice a Brescia, “costretto” a passare al civile per incompatibilità con la moglie pm, con solo due fascicoli su 1800 per i quali è stata necessaria l’astensione. Mirenda e l’altro indipendente, Roberto Fontana, avevano pertanto chiesto il ritorno in Commissione, proposta bocciata con 24 voti contrari e cinque astensioni.
Nella dichiarazione di incompatibilità presentata il 9 gennaio 2025, Di Vita spiegava infatti che il fratello Antonio e la figlia Francesca, entrambi parte dello studio Di Vita - Lenzini, lavorano principalmente nel settore amministrativo e occasionalmente in quello civile correlato, mentre il figlio Federico si occupa esclusivamente di diritto sportivo. «Nulla dice, invece, Di Vita sul settore praticato dalla moglie del fratello - aveva sottolineato Mirenda - né della di lei sorella, avvocato Claudia Lenzini, attuale assessore per le politiche della casa del Comune di Bergamo. E così pure nulla dice per l'attività svolta dall'avvocato Michele Di Vita, di cui ignoriamo l’eventuale grado di parentela col collega».
Una «inusuale esposizione», secondo Mirenda, «in un contesto tanto piccolo qual è quello bergamasco». Lo studio, però, si occupa anche di civile «e precisamente assistenza legale giudiziale e stragiudiziale in favore di privati, aziende ed enti pubblici nei settori famiglia, lavoro, contrattualistica, recupero crediti, risarcimento danni». Insomma, informazioni, secondo Mirenda, di tenore ben diverso da quelle rilasciate da Di Vita. Servirebbe, dunque, «un’attestazione del dirigente amministrativo del Tribunale di Bergamo che dia conto dell’assenza di pendenze riferibili a quello studio legale» e già questo sarebbe bastato, secondo Mirenda, per un ritorno in Commissione.
Il tutto per «evitare nomine traballanti, lesive persino dell’immagine della giurisdizione, destinate poi ad inevitabile revoca, con danno amministrativo evidente - aveva evidenziato -. Né pare serio pensare al rimedio posticcio della rimozione successiva dell'incompatibilità» perché ciò offenderebbe «i principi di buon andamento appena ricordati ed è ancora una volta espressione di una nostra totale autoreferenzialità corporativa che privilegia i vantaggi del singolo magistrato piuttosto che il prestigio dell'ordine giudiziario e la linearità dell’azione di autogoverno».