Non riescono a trasformare in imputato per strage Marcello Dell’Utri, così come non ce l’hanno fatta con Berlusconi, e allora ripiegano sul suo patrimonio, i magistrati fiorentini che indagano da trent’anni sulle bombe del 1993 e 1994. La procura ha depositato gli atti di chiusura indagini, la formula che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio, per un reato previsto dalla legge Rognoni La Torre, che impone ai condannati per mafia di segnalare ogni variazione patrimoniale nei dieci anni successivi alla sentenza. Dell’Utri avrebbe omesso la segnalazione. Così la pensano a Firenze. Mentre a Palermo proprio un mese fa, un tribunale, non solo ha respinto la richiesta di sottoporre Dell’Utri a sorveglianza speciale e di sequestrare i suoi beni, ma ha anche smontato il teorema che in Toscana suscita tanta passione. Con queste parole: “Non può presumersi la natura illecita di entrate comunque tracciate, e delle quali i protagonisti hanno fornito una spiegazione non smentita dalle evidenze”. Si chiama buona fede. E si chiama amicizia e affetto, quello che ha legato per sessant’anni delle loro vite il rapporto tra Silvio e Marcello.

E si chiama senso di colpa quello che ha afflitto fino alla fine il primo, consapevole del fatto che se lui non fosse entrato in politica nel 1994 e non avesse coinvolto nel suo progetto il dirigente di Publitalia, l’amico di sempre non sarebbe mai stato neanche sfiorato da alcun magistrato e non sarebbe mai stato processato né condannato per concorso esterno, e non avrebbe subito il carcere. È esattamente questo che ha inteso dire Miranda Ratti, la ex moglie di Dell’Utri quando, parlando al telefono con un’amica, e intercettata, alludeva al grande debito che Silvio aveva con Marcello. Viene invece interpretata come fosse consapevole di un vero ricatto del marito nei confronti del presidente di Forza Italia.

Infatti, nel deposito delle carte, i pm di Firenze scrivono, relativamente alle violazione della legge Rognoni La Torre ma soprattutto di una seconda nuova imputazione, quella di “intestazione fittizia di beni” per quindici milioni di euro versati da Berlusconi a Miranda Ratti: “con l’aggravante di aver commesso i delitti di trasferimento fraudolento al fine di occultare la più grave condotta di concorso nelle stragi, ascrivibile a Silvio Berlusconi e allo stesso Dell’Utri per la quale Berlusconi è stato indagato… costituendo le erogazioni di quest’ultimo il quantum percepito da Dell’Utri per assicurare l’impunità a Silvio Berlusconi”.

Un ragionamento pieno di buchi. Soprattutto uno. Sono trent’anni che vari pm con l’ossessione dell’ex presidente del Consiglio aprono indagini su di lui perché sospettano che un bel giorno abbia detto ai boss di Cosa Nostra di mettere bombe e uccidere, in modo che lui potesse diventare capo del governo. Come se nel 1994 Berlusconi avesse poi realizzato il suo progetto attraverso un colpo di Stato e non libere elezioni. Per quattro

volte, da Caltanissetta fino a Firenze, sono stati aperti fascicoli poi chiusi con archiviazioni in gran parte richieste dalle stesse procure.

E la tesi politica che vuole vedere la cessazione delle stragi nei primi mesi del 1994 come risultato per la vittoria di Forza Italia, è stata smentita dagli stessi collaboratori di giustizia, che nei processi a Cosa Nostra sono stati tanti e molto chiacchieroni. Lo ha detto tempo fa lo stesso Pietro Grasso, ex procuratore nazionale antimafia, nel corso di un’intervista a Lucia Annunziata. Quando sono andato a chiederlo a Gaspare Spatuzza, ha ricordato, mi ha detto che ormai i capi dei corleonesi erano tutti all’Ucciardone. Le stragi erano cessate perché i capi di Cosa Nostra erano ormai stati arrestati e perché lo Stato aveva vinto. Ma pare che a non volerlo accettare siano proprio alcuni magistrati. Il procuratore Luca Tescaroli, ormai non più a Firenze ma a Prato a dirigere un altro ufficio, aveva 27 anni ed era un semplice sostituto quando cominciò questo tipo di indagini a Caltanissetta. Pure, dopo quattro archiviazioni, ne ha aperta un’altra nel 2017, quella che ancora non si chiude, benché Silvio Berlusconi non ci sia più. A Firenze non c’è più neppure quel dirigente della Dia che tanta curiosità aveva dimostrato persino nella formazione del patrimonio che ha dato luogo alla nascita di Fininvest, il “superpoliziotto” Francesco Nannucci, trasferito a Lucca con grande dispiacere dei pm che lui aveva affiancato nelle indagini su Berlusconi. Resta il procuratore aggiunto Luca Turco, quello simpatico a Matteo Renzi perché si è occupato a lungo della sua famiglia.

Per poter continuare a tenere aperto quel fascicolo dopo sette anni e dopo le buffonate della vicenda del gelataio Baiardo e la foto misteriosa e inesistente, la procura dovrà dimostrare la sostanza di quel presunto “ricatto” di Dell’Utri a Berlusconi. Il silenzio dell’ex presidente di Publitalia serviva ad “assicurare l’impunità a Berlusconi”? Allora bisogna dimostrare che il leader di Forza Italia aveva commesso un reato, quello di esser stato il mandante di bombe e stragi, con la complicità di Dell’Utri.

Perché allora i pm fiorentini non hanno il coraggio di chiedere il rinvio a giudizio per strage almeno di uno dei due complici, quello sopravvissuto? Lo facciano, e vediamo se ci sarà a Firenze, o in qualunque altra parte d’Italia, un giudice disposto a un rinvio a giudizio. Se no, chiedano la quinta archiviazione. E che cosa pensano di tutto questo il procuratore capo di Firenze Filippo Spezia e il Csm?