«Fermo restando il riconoscimento per l’impegno profuso nell’attività istruttoria di merito, deve, tuttavia, rivelarsi che la sentenza impugnata, e ancor più marcatamente quella di primo grado, hanno, invero, optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico». Una leggera stoccata al processo “trattativa” da parte dei giudici della Cassazione, che hanno confermato, ma per «non aver commesso il fatto», l’assoluzione degli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno.

Una sentenza, quella della Corte Suprema, che ha voluto sottolineare come i giudici di merito - pur muovendo dal corretto rilievo che la cosiddetta trattativa Stato-Mafia non costituisce di per sé reato - hanno assunto, sia nelle motivazioni di primo che di secondo grado, una mole imponente (5237 pagine in primo e 2971 pagine in secondo grado), tale da «offuscare le ragioni della decisione e rendere le linee argomentative di difficile identificazione e interpretazione». Ed è così. Da ribadire che la tesi giudiziaria della Trattativa Stato-mafia è una ricostruzione che ha tentato di riscrivere la storia di un determinato periodo del nostro Paese.

Ogni legittima scelta politica, lotta tra correnti all’interno dell’ex Democrazia cristiana, atti amministrativi da parte dell’allora Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria o dell’allora ministero della Giustizia, azioni investigative portate avanti dalle divise, in particolare il reparto speciale dei carabinieri (Ros), viene riletta sotto la lente "trattativista". Un vero e proprio teorema che prende vari episodi, li decontestualizza, si avanzano sospetti e suggestioni, e li riunisce creando così una narrazione apparentemente scorrevole. Non a caso i giudici della Cassazione, nelle motivazioni che hanno sigillato definitivamente la fine della "guerra" giudiziaria nei confronti degli ex Ros, sottolineano che secondo le Sezioni Unite, il «virtuoso paradigma della chiarezza e concisione» impone, infatti, di discutere, "ove occorra anche diffusamente, solo i fatti rilevanti e le questioni problematiche, liberando la motivazione dalla congerie di dettagli insignificanti che spesso vi compaiono senza alcuna necessità».

Ma andiamo sul punto. Gli ex Ros, attraverso l’interlocuzione con Don Vito Ciancimino, hanno sì o no veicolato la minaccia mafiosa al governo? La risposta dei giudici supremi è un categorico no. Secondo la ricostruzione effettuata dalla sentenza impugnata, l'iniziativa dei carabinieri non era volta a spingere "cosa nostra" a minacciare il governo, bensì mirava al perseguimento dell'obiettivo opposto di porre fine alla stagione stragista. Nel corso della loro azione, Mori e De Donno miravano simultaneamente alla «contestuale decapitazione dell'ala stragista o militarista» attraverso la cattura dei suoi esponenti, come dimostrato dall'arresto di Salvatore Riina avvenuto il 15 gennaio 1993.

Secondo i giudici emerge, quindi, dalla motivazione della sentenza impugnata, una contraddizione logica insanabile tra l'elemento soggettivo (ovvero l'intenzione) che animava gli ex ufficiali dei Ros nella loro interlocuzione con i vertici mafiosi e il riconoscimento di una valenza agevolatrice oggettiva della minaccia mafiosa risultante dalla loro condotta. Sempre i giudici supremi, sottolineano che anche se l'apertura di un dialogo con i vertici di "cosa nostra", come evidenziato dalla sentenza impugnata, è stata molto più di una spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria, assumendo piuttosto la connotazione di un'operazione di intelligence, tale condotta non è espressamente sanzionata dalla legislazione penale e, in assenza della dimostrazione di un preciso nesso di condizionamento o agevolazione delle condotte degli autori del reato, non può integrare il concorso nel reato di minaccia al Governo.

Ma qual è l’unica “prova” che la procura di Palermo aveva in mano per dimostrare l’avvenuta minaccia al corpo politico dello Stato? È la non proroga del 41 bis a circa 300 detenuti (solo una piccolissima percentuale erano mafiosi) su iniziativa dell’allora ministro della giustizia Conso. Ebbene, la Cassazione specifica chiaramente che non è stata raggiunta la prova "oltre ogni ragionevole dubbio" che la minaccia mafiosa sia stata «veicolata» da Mori a Di Maggio (all’epoca vice capo del Dap) e da quest'ultimo riferita al Ministro Conso. Onde per cui, per quanto riguarda cosa nostra, nei confronti di quest’ultimi, la minaccia deve essere ritenuta integrata nella sola forma del tentativo.

I giudici ermellini hanno quindi dichiarato la prescrizione per il boss di Cosa nostra, Leoluca Bagarella, condannato dai giudici di Appello di Palermo a 27 anni e per il medico Antonino Cinà, vicino a Totò Riina, a cui in secondo grado furono inflitti 12 anni di reclusione. I giudici, come detto, hanno infatti riqualificato i reati di violenza e minaccia ad un corpo politico dello Stato nella forma del tentativo. Con la riqualificazione la fattispecie è andata in prescrizione.

Qual è stata la minaccia tentata? La Cassazione spiega che «La minaccia prospettata dall'organizzazione mafiosa, del resto, nel momento in cui venne esternata a Mori e a De Donno, in ragione del proprio contenuto, della sua provenienza e, segnatamente, degli omicidi e delle stragi compiute da "cosa nostra" in quel periodo, aveva obiettivamente un'attitudine ad intimorire e a turbare l'attività del Governo, a prescindere dal fatto che non si abbia l'ulteriore dimostrazione che sia stata poi concretamente trasmessa e pervenuta a conoscenza del destinatario finale». Ora il capitolo è finalmente chiuso. Nessun reato hanno commesso gli ex Ros e il dialogo avviato con Don Vito non era volto a veicolare alcuna minaccia né scendere a patti con la mafia. Ed era quello che hanno sempre sostenuto gli ex ros e riferito subito alla procura di Palermo dopo la “caduta” dell’allora procuratore Pietro Giammanco.