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IMAGOECONOMICA
Palermo, anno domini 2022. In una sentenza redatta da alcuni giudici della Corte d’Appello appare un’espressione antiquata, tirata in ballo nel verdetto di assoluzione di un giovane accusato di violenza sessuale. Un’espressione che riporta indietro di anni, quando i reati sessuali erano ancora rubricati come reati contro la morale sessuale e valeva il principio “l’uomo ha il diritto di chiedere, la donna ha il dovere di rifiutare”. È il principio del “vis grata puellae”, assunto in base al quale la donna ha un onere di resistenza, forte e costante, agli approcci sessuali dell’uomo, non essendo sufficiente manifestare un mero dissenso. Un principio in base al quale il semplice rifiuto di un atto sessuale non basta: se non ci si ribella, se non si scappa, allora tutto può anche ridursi ad una schermaglia amorosa. C’è anche un riferimento a questo modo di vedere i rapporti tra uomo e donna nella sentenza firmata dai giudici di Palermo che - come riporta il blog Terzultimafermata di Riccardo Radi e Vincenzo Giglio - hanno riformato la condanna inflitta in primo grado al giovane evidenziando più volte «l’assenza di una reazione fisica» da parte della presunta vittima, nonché «l’assenza di segni esteriori indicativi di una violenza». Una motivazione illogica, secondo i giudici di Cassazione (sentenza numero 13222 depositata il 2 aprile 2024), che hanno annullato con rinvio la sentenza, sottolineando la scelta «anacronistica» di richiamarsi al celebre verso di Ovidio, che cancella secoli di battaglie per la parità dei sessi e i progressi della legislazione.
Il nucleo fondamentale della decisione dei giudici della Suprema Corte va, ovviamente, oltre la critica alle scelte “stilistiche” dei colleghi di Palermo. Che nel richiamarsi a regole antiche, quanto errate, del “gioco della seduzione” tra i sessi per ribaltare la sentenza di condanna non hanno però rispettato l’obbligo di «delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dimostrandone in modo rigoroso l’incompletezza o l’incoerenza». Insomma, non solo i giudici di appello non hanno confutato le argomentazioni della sentenza di primo grado, ma non le hanno «nemmeno analizzate, ribaltando l’epilogo decisorio sulla base di un iter logico-giuridico del tutto avulso dal percorso argomentativo seguito dal giudice di prime cure». I giudici, anziché spiegare con chiarezza quali fossero le ragioni per ritenere sussistente il ragionevole dubbio, si sarebbero limitati ad affermare i propri dubbi sulla volontarietà o meno dei rapporti sessuali consumati tra i giovani, dubbi alimentati dal fatto che uno dei testi ha riferito di aver offerto un passaggio alla presunta vittima, passaggio che invece la giovane ha accettato da quello che poi si sarebbe rivelato il suo aggressore. Lo stesso teste ha incontrato la giovane poco dopo, vedendola scoppiare in un pianto disperato e raccogliendo la prima confidenza circa la violenza subita. Ma di fronte a tale situazione il teste le avrebbe suggerito di «dimenticare tutto, rimproverandola persino di non aver lasciato il suo attuale fidanzato».
La sentenza si limita a riepilogare le risultanze, senza elaborare, però, tale materiale probatorio e senza chiarire le ragioni per le quali le dichiarazioni della presunta vittima sarebbero inattendibili, così come il suo pianto subito dopo il fatto. Dichiarazioni che andavano, invece, valutate in maniera accurata, data anche la cautela con la quale va valutato il dichiarato della persona offesa che, in quanto parte lesa, «è portatrice di un interesse contrapposto a quello dell’imputato». Una volta fatto ciò, i giudici avrebbero dovuto «ricostruire, con precisione, l’accaduto, in stretta aderenza alle risultanze processuali e verificando se queste ultime, valutate non in modo parcellizzato ma in una prospettiva unitaria e globale, potessero essere ordinate in una costruzione razionale e coerente, di spessore tale da approdare sul solido terreno della verità processuale». Tutto ciò, scrive per la Cassazione, manca nella sentenza della Corte d’Appello di Palermo, che ha bypassato pure il tema degli indumenti intimi lacerati e dei messaggi scambiati tra presunta vittima e presunto stupratore, messaggi nei quali il giovane, «pur confermando il contesto e i tratti essenziali della vicenda e sostenendo di non ricordare bene cosa fosse successo, contesta di aver usato violenza e riferisce che a un certo punto della serata la ragazza si era spaventata, ammettendo di essere leggermente nervoso». La Corte d’Appello, dunque, «avrebbe dovuto spiegare in maniera puntuale le ragioni per le quali ha ritenuto di addivenire ad una pronuncia di segno opposto rispetto a quella di primo grado, che aveva evidenziato come l’imputato, convinto che si fosse creata una situazione favorevole e forte del pregiudizio» secondo cui la giovane «era una ragazza “facile”, mosso dal desiderio maturato da tempo di avere un rapporto sessuale con lei, ha disatteso i segnali di dissenso che la stessa aveva manifestato». Ma non solo: per la Cassazione è contraddittorio il fatto da un lato, di sostenere «l’inattendibilità della persona offesa in ordine al dissenso ai rapporti sessuali», mentre dall’altro «afferma che il semplice rifiuto verbale ai rapporti sessuali, comunque manifestato dalla persona offesa, potesse essere interpretato» dal presunto stupratore «come ritrosia, meramente formale e “di facciata”, di una donna alle iniziative erotiche del partner - continua la sentenza -. Non si comprende poi quale rilievo probatorio e argomentativo abbia, nel contesto dell’apparato giustificativo della decisione impugnata, il riferimento alla vis grata puellae, a fronte di una problematica inerente ad un atteggiamento coercitivo o meno dell’imputato». Un tuffo nel passato, cancellato, per fortuna, con un colpo di spugna dalla Cassazione.