Tempi duri per la Procura della repubblica di Torino. Dopo lo strappo del processo sulla Juventus, la Corte di Cassazione le ha sottratto anche quello nei confronti dell’ex senatore del Pd Stefano Esposito, trasferendolo a Roma per competenza territoriale. Lì infatti, come era evidente dall’inizio e come hanno sostenuto invano i difensori del parlamentare fin dai primi giorni dell’inchiesta, si sarebbe verificato il primo reato, una presunta corruzione.

E non è tutto. Perché il 21 novembre la Corte costituzionale dovrà decidere sul conflitto di attribuzione sollevato dal Senato, mentre è pendente anche la sorte dei due magistrati torinesi protagonisti delle vicenda, il pm Gianfranco Colace e la gip Lucia Minutella, dal punto di vista disciplinare, dopo l’apertura della procedura di incolpazione nei loro confronti da parte del procuratore generale della Cassazione. Così il processo all’ex senatore, dopo sei anni e mezzo, comincerà da capo. Ma parallelamente la Consulta ci dirà, il 21 novembre prossimo, se la procura di Torino ha invaso il campo del Senato e violato le prerogative dei parlamentari sottoponendo Stefano Esposito a cinquecento intercettazioni, seppur indirettamente tramite il suo amico Giulio Muttoni, imprenditore del settore discografico, senza chiedere l’autorizzazione al Senato. E il procuratore generale della Cassazione, che ha già consultato due alti magistrati torinesi, il presidente della corte d’appello Edoardo Barelli Innocenti e il procuratore generale Franco Saluzzo, dovrà decidere se far sottoporre all’azione disciplinare da parte del Csm il pm Colace e la gip Minutella per «grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile», come prevede la legge del 2006 sull’ordinamento giudiziario.

Che la competenza territoriale sulla posizione processuale di Stefano Esposito fosse romana era piuttosto evidente. Si trattava infatti di un prestito di 150.000 euro concesso da Giulio Muttoni all’amico fraterno trentennale Stefano Esposito per l’acquisto di una casa, tramite bonifico su un conto corrente di una banca nella città di Roma. Questo versamento (la cifra sarà interamente restituita un anno dopo) sarà considerato dalla procura il primo atto di corruzione e finirà nel frullatore di un’inchiesta inizialmente contro ignoti per ‘ndrangheta e battezzata come “Mafia al nord”. Il prestito è del 2010, ma i magistrati lo mettono sotto osservazione solo dopo il 2015 nell’inchiesta che ormai sarà diventata “bigliettopoli”, quando l’imprenditore Muttoni riceverà un’interdittiva antimafia dal prefetto di Milano e il senatore Esposito, che a Torino lavora in prefettura, viene sospettato di averlo aiutato. L’oggetto della corruzione sarebbe proprio il prestito di tanti anni prima, anche se erogato alla luce del sole e interamente restituito un anno dopo.

Ma il centro di questo processo, che finirà, facile previsione, in niente, per quel che riguarda l’ex senatore, non è più quello che un tribunale di Roma prossimamente dovrà iniziare a giudicare, ma lo scandalo intercettazioni. Eh si, perché Stefano Esposito verrà iscritto nel registro degli indagati (a sua insaputa, come troppo spesso accade) nel 2017 sulla base delle frequentissime telefonate che intercorrevano tra lui e il suo amico fraterno Giulio Muttoni, il testimone di battesimo di una delle sue tre figlie. Saranno almeno 500 quelle registrate tra i due, e circa 130 quelle utilizzate nell’inchiesta, senza che mai, in violazione del comma 3 dell’articolo 68 della Costituzione, sia stata chiesta l’autorizzazione al Senato. Il pm Colace ha sempre sostenuto che le captazioni erano “casuali” e comunque non dirette sul senatore. Ma è dimostrato anche da relazioni della polizia giudiziaria, che fin dalle prime mosse dell’inchiesta, Stefano Esposito era stato individuato come parlamentare, dunque soggetto di guarentigie costituzionali. E, fatto ancor più singolare, neppure la gip Minutella ha mai mostrato di porsi il problema della possibile violazione, limitandosi a rinviarne la discussione insieme al merito della causa nell’udienza preliminare. Ma poi “dimenticandosene”.

In Senato era poi accaduto un fatto straordinario, perché sarà Pietro Grasso, mai considerato campione di garantismo, a impugnare la bandiera della difesa della politica contro gli abusi di certe toghe. Sarà lui a portare prima la commissione sulle immunità e poi l’aula a votare quasi all’unanimità, con l’esclusione degli esponenti dei Cinquestelle, per la proposizione del conflitto di attribuzione presso la Corte costituzionale. E sarà ancora lui a stimolare il procuratore generale presso la Cassazione perché avviasse la procedura per l’azione disciplinare nei confronti dei due magistrati torinesi. Ottenendo due risultati: l’ammissibilità della richiesta da parte della Consulta, e l’avvio della pratica con l’incolpazione delle due toghe da parte del pg della Cassazione. Suscitando anche una bella spaccatura all’interno della magistratura. Perché la corrente di Area del sindacato delle toghe si era schierata con i colleghi torinesi, contestando alla procura generale della Cassazione di essersi accodata al ministro della giustizia Nordio (già sospetto per il “caso Renzi”) in «una deriva che rischia di compromettere irreparabilmente l’indipendenza della magistratura quando indaga sui potenti». Solita storia. Ma intanto, mentre il processo inizierà chissà quando e chissà con quali risultati, il suo corso naturale, dopo sei anni e mezzo, c’è qualcuno che attende sulla riva del fiume il responso della Corte costituzionale e poi, forse, quello del Csm.