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Come era facilmente prevedibile, non si placano, pur essendo passati alcuni giorni, le polemiche a seguito della decisione del pm di Brescia di chiedere l'archiviazione nei confronti di un cittadino del Bangladesh accusato di aver maltrattato e minacciato la moglie, costringendola anche ad avere rapporti sessuali contro la sua volontà. Per il pm bresciano Antonio Bassolino sarebbe manca «l'abitualità» della condotta e gli episodi incriminati sarebbero maturati «in un contesto culturale che, sebbene inizialmente accettato dalla» moglie dell’uomo poi «si è rivelato intollerabile, rifiutando il modo di vivere e le tradizioni della comunità bengalese di cui l'imputato era fieramente latore.
In altri termini - aveva aggiunto Bassolino nella richiesta di archiviazione, a fronte di una imputazione coatta da parte del gip - l'intolleranza della convivenza» per la donna «è maturata nell'ambito di una differenza culturale già esistente tra i due ma per lungo tempo tenuta sopita» dalla moglie, «la quale aveva creduto di poter accettare l'impianto culturale della famiglia di origine per ragione legate all'affetto e al rispetto nei confronti della famiglia e della madre». Al bengalese, islamico di stretta osservanza e verosimilmente per nulla integrato nel contesto sociale occidentale, sarebbe così mancata la «coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge, atteso che la disparità fra l'uomo e la donna è un portato della sua culturale che la medesima aveva persino accettato».
Frasi che avevano immediatamente determinato da parte del consigliere laico del Csm Enrico Aimi (FI) la richiesta di apertura di una pratica per valutare la condotta del magistrato proprio «per la gravità delle asserzioni del pm che parrebbe giustificare, se non autorizzare, la violenza domestica». Per Aimi, tale condotta «è assolutamente inaccettabile, soprattutto in questo momento storico in cui assistiamo quotidianamente a forme di sopruso e maltrattamenti a danno di donne». Il procuratore di Brescia Francesco Prete aveva immediatamente preso le “distanze” dal suo sostituto, sconfessandone di fatto l'operato. La procura, si legge in una nota, «ripudia qualunque forma di relativismo giuridico, non ammette scriminanti estranee alla nostra legge ed è sempre stata fermissima nel perseguire la violenza, morale e materiale, di chiunque, a prescindere da qualsiasi riferimento “culturale”, nei confronti delle donne». Prete, dopo aver ricordato che il pm in udienza è libero ed indipendente, esercitando le sue funzioni «con piena autonomia» e che pertanto le conclusioni da egli rassegnate in aula «non possono essere attribuite all’ufficio nella sua interezza», aveva voluto tranquillizzare l'opinione pubblica ribadendo che tutti i magistrati del suo ufficio agiscono sempre «nel rispetto della legalità, secondo i parametri fornitici dalla Costituzione e dalla legge». A difendere il collega dalla gogna mediatica che lo aveva investito, invece, la locale sezione dell'Associazione nazionale magistrati. Per l’Anm, «con queste modalità è stata gravemente minata innanzitutto la dignità umana e professionale del singolo magistrato coinvolto, la cui cifra personale, culturale e professionale è stata indebitamente messa in discussione».
«Le critiche si propagano al suo ufficio giudiziario di appartenenza e alla magistratura in generale», aveva aggiunto l'Anm, stigmatizzando poi «le ormai consuete acritiche condanne provenienti dalla politica, che sempre più frequentemente invoca, quale rimedio per ogni male giudiziario (reale o presunto), ispezioni ministeriali negli uffici interessati e sanzioni disciplinari, a prescindere dalla sussistenza dei presupposti di legge, e ciò avviene ogni qualvolta le valutazioni compiute dai magistrati non coincidano con le aspettative dell’opinione pubblica prevalente, slegate dalla compiuta conoscenza dei fatti concreti e, spesso, dei termini delle questioni giuridiche implicate». Concetto ribadito anche dalla Camera penale di Brescia, che vede dietro «l’opportunismo propagandistico il preludio di nuove legislazioni emergenziali, che non rispondo ai reali bisogni della società e della giustizia». Per i penalisti, è «inammissibile ogni intervento della funzione politica volto a cavalcare reazioni emotive legate ai fatti di cronaca, a promuovere campagne di opinione e a imporre condizionamenti alla celebrazione del giudizio penale, soprattutto con una totale mancanza di approfondimento rispetto ai primi titoli sensazionalistici fondati su notizie parziali». Vedremo cosa accadrà prossimamente.