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PROCESSO E SENTENZA BANCA CARIGE FALDONI TRIBUNALE AULA
Difficile proporre una chiave di lettura unica. Se non la sola possibile quando si tratta di giustizia: tagliare i tempi dei diritti è impossibile. Così come è vero che ridurre i tempi dei processi è senz’altro necessario affinché la tutela dei diritti sia effettiva, e non solo virtuale (un credito recuperato quando ormai l’impresa creditrice è sommersa dalle difficoltà è un diritto negato).
In ogni caso, i dati sull’andamento della giustizia civile contenuti nella relazione di via Arenula sul 2024 smontano la favola per cui sarebbe bastato costringere gli avvocati a starsene lontani dai tribunali per sistemare ogni cosa. È una favola che la riforma intestata a Marta Cartabia – ma il cui “genitore naturale” è innanzitutto Mario Draghi – aveva preteso di realizzare anche attraverso i limiti molto stringenti imposti ai difensori nel deposito di domande e atti utili alla parte assistita. Una blindatura procedurale che si è accompagnata alla blindatura fisica, cioè al permanere delle “norme covid” sulla trattazione scritta dei procedimenti.
Ma appunto, irrigidire e smaterializzare il processo civile non è servito: nello scorso anno, il disposition time per i giudizi di primo grado è infatti aumentato, seppur di pochissimo. Si tratta del tempo in cui, prevedibilmente, verranno definite le controversie nell’anno in corso (in base al rapporto tra i giudizi pendenti alla fine dell'anno precedente certo anno e quelli definiti sempre nei 12 mesi appena trascorsi): è passato dai 486 giorni del 2023 ai 488 del 2024, con un incremento dello 0,4%.
Un’inezia, certo. Ma che tiene lontani gli iperbolici obiettivi concordati con l’Europa al momento di ottenere i fondi per il Pnrr: tra le condizioni poste da Bruxelles per concedere al Belpaese i famosi 194,4 miliardi, c’era appunto un taglio pari al 40% della “durata stimabile” delle cause civili entro il giugno 2026, taglio relativo a tutte e tre i gradi di giudizio e misurato sul dispositon time dell’ultimo anno precedente alla pandemia, il 2019.
Dopo la performance non entusiasmante del 2024 (riduzione della durata complessiva prevedibile pari ad “appena” il 3,2%, e solo grazie al bilanciamento assicurato, rispetto all’affanno dei Tribunali, da Corti d’appello e Cassazione), la riduzione è al 20,1% rispetto al “benchmark” di 5 anni fa. La metà di quanto si sarebbe dovuto conseguire.
Il vero nodo è nella fatica esasperante accusata ancora da alcuni uffici di primo grado, lentezza che peggiora la media nazionale ma che non può essere attribuita, a quanto risulta, a una particolare indolenza di magistrati e personale amministrativo: è tutto legato, casomai, all’aumento delle cause in entrata, cioè dei nuovi procedimenti iscritti a ruolo, pari al +12,4%. Crescita che riguarda soprattutto un ambito, quello delle richieste di cittadinanza e protezione internazionale, legato a sua volta a fattori incontrollabili. Ne è consapevole il governo e, in particolare, il dicastero guidato da Carlo Nordio.
A fotografare lo stato dei lavori con un dossier è il Sole-24 Ore di oggi. Resta l’evidenza di una iper-razionalizzazione delle procedure letteralmente travolta dalla realtà. Fatta di casi limite, come per il Tribunale di Venezia, uno dei veri e proprio bug (incolpevoli) del sistema: c’è un’ondata anomala di richieste di riconoscimento della cittadinanza avanzate non da stranieri miracolosamente scampati ai naufragi nel Mediterraneo, ma da cittadini brasiliani che vantano avi in veneto e si rivolgono – per trasformare la “circostanza storica” in “diritto a diventare italiani”, appunto, al Tribunale distrettuale più importante della Regione. Sono dati che fanno impressione: domande di cittadinanza in aumento del 1.138% rispetto al 2022. Parliamo di qualcosa come 36mila fascicoli.
La conseguenza è che, rispetto al 2019, il disposition time di Venezia, anziché ridursi, è saliti addirittura del 123%. A Trieste e L’Aquila si assiste allo stesso fenomeno fuori controllo, in proporzioni appena attenuate.
C’è un fantasma dietro l’angolo: il tracollo dei numeri per circostanze impossibili da preventivare potrebbe istigare a un’ulteriore stretta delle procedure e dell’accesso ai diritti sia il legislatore italiano e sia i vigilanti eurounitari, fisicamente presenti negli uffici del governo, a cominciare proprio da via Arenula.
L’incubo cioè è in una spirale ossessiva di chiusure dell’accesso alla giustizia: si è già tradotta nell’esasperata cartolarizzazione delle udienze, ereditata dal covid e conservata nonostante la rivolta dell’avvocatura. E di recente, il raptus preclusivo è riemerso prima col tentativo, scongiurato, di subordinare l’iscrizione a ruolo al versamento dell’intero contributo unificato, e poi con la norma, introdotta dal decreto 36 del 2025, secondo cui possono pretendere di diventare italiani solo gli stranieri che vantino non un quadrisavolo ma un genitore o un nonno nati sul suolo del Belpaese. Una rincorsa con poche speranze di successo, evidentemente.