Ieri in Iran è stata una giornata storica: i grandi commercianti, tradizionalmente una stampella del consenso sociale fin dai tempi della Rivoluzione khomeinista del ’ 79, hanno incrociato le braccia, saracinesche abbassate in tutti i bazar di Teheran, ma anche in altre città importanti come Shiraz, Esfahan, Mashhad, Tabriz e un altra cinquantina di centri urbani. In rete circolano i video dei mercati deserti e degli esercizi che rimarranno chiusi fino a domani, quando lo sciopero generale avrà termine.

Pare che a far infuriare i proprietari dei bazar sia stato l’arresto di un negoziante che aveva servito una donna senza velo.. Una forma di contestazione radicale; in un paese dove non esistono sindacati lo sciopero generale è un palese atto di disobbedienza civile e una sfida al governo. Si sono organizzati sul web attraverso i social network, aggirando la censura del regime che da oltre due mesi esercita un controllo strettissimo su internet.

Stavolta i commercianti non protestano per ragioni economiche o corporative come è accaduto nella serrata del 2019 contro l’aumento dei prezzi del carburante e dell’inflazione in generale, ma hanno raccolto l’appello del movimento di donne e di giovani che da oltre due mesi infiamma le piazze del Paese, subendo la feroce repressione del regime sciita con oltre trecento manifestanti uccisi secondo le stime dei gruppi di opposizione, migliaia di arresti e una decina di condanne a morte. L’ultima in ordine di tempo quella del 27enne Sahand Nur Mohammadzadeh, fermato dalle forze di sicurezza mentre stava incendiando un cassonetto. Verrà impiccato al più presto promettono i giudici che lo hanno condannato.

Ma nonostante il giro di vite la protesta non si è mai fermata un giorno, anzi, ha conquistato anche le province più lontane, come nelle regioni curde e nel sottosviluppato Baluchistan, e le stesse roccaforti degli ayatollah teatro di manifestazioni e cortei, un’onda che fa tremare le fondamenta della repubblica islamica e che inizia seriamente a far paura ai dignitari iraniani.

Non si può leggere altrimenti il proclama del procuratore generale Montazeri che domenica scorsa ha annunciato la dissoluzione della controversa polizia religiosa, la stessa che il 16 settembre aveva preso in custodia e probabilmente assassinato la ventenne di origine curda Masha Amini perché indossava il velo in modo «non conforme». Ed è stata proprio la morte di Masha Amini a innescare l’effetto domino delle rivolte. Quanto sono attendibili li dunque dichiarazioni di Montazeri?

Per il momento né nell’entourage del presidente ultraconservatore Ebrahim Raissi né in quello della guida suprema Alì Khamenei hanno confermato la notizia e si tratta di un aspetto importante visto che la polizia religiosa, istituita nel 2005 dall’ex presidente Amadinejad, non fa capo al potere giudiziario ma a quello politico. Peraltro secondo quanto riferisce l’emittente statale iraniana in lingua araba Al Alam, «nessun funzionario della Repubblica islamica dell’Iran ha confermato la questione dell’abolizione della polizia morale». L’ambiguità regna sovrana.

Di certo alle aperture formali del procuratore non corrispondo gli atti successivi del regime che non fa alcuno sforzo per ammorbidirsi: ieri un tribunale di Teheran ha infatti convocato l’attrice Shaghayegh Dehghan, “colpevole” di aver pubblicato una sua foto senza velo sulla propria pagine Instagram, è accusata di aver infranto le “norme morali”.

In tal senso è legittimo interrogarsi sul fatto che quella del regime sia un’opera di semplice maquillage, se infatti a colpire i diritti fondamentali delle donne non sarà più la famigerata polizia morale ma altri apparati di controllo e di pubblica sicurezza oppure la stessa magistratura ordinaria, per le iraniane e gli iraniani non cambierebbe assolutamente nulla. En al danno della vioenza di Stato si aggiungerebbe la beffa di essere anche stati presi per i fondelli.