Sono il “buco nero” della giustizia italiana da dove chi può scappa quanto prima. Parliamo delle Corti d’appello, uffici giudiziari in passato molto ambiti ed in cui i magistrati arrivavano a fine carriera, dopo aver svolto almeno trent’anni di servizio in primo grado. Adesso, invece, sono posti da cui fuggire in tutti modi: cercando un incarico fuori ruolo al ministero della Giustizia o in qualche Commissione parlamentare, andando in pensione appena si hanno i requisiti, tornando alla originaria funzione in primo grado.

La fuga dalla Corti è un tema di cui nessuno parla. Il dibattito sulla giustizia è, come noto, monopolizzato da mesi esclusivamente sulla separazione delle carriere fra pm e giudici. La stessa Associazione nazionale magistrati, fra uno sciopero ed un sit-in di protesta, non sembra essere particolarmente interessata a ciò che sta accadendo nelle Corti d’appello. Un timido segnale c’è stato questa settimana durante il plenum del Csm quando Maurizio Carbone, togato progressista, ha affermato che non ci sono più domande per fare il presidente di sezione nelle Corti. Ed ha citato un paio di uffici dove c’erano due domande per due posti, rendendo così obbligata la scelta finale del Csm non essendo possibile effettuare alcuna comparazione.

Ma se non ci sono domande per fare il presidente di sezione in Corte, la situazione per i posti di consiglieri è drammatica. Gli ultimi bandi stanno andando quasi tutti deserti, anche in uffici di un certo prestigio. Come si è giunti a questa situazione? Al momento si possono azzardare delle ipotesi. Ad esempio, la clausola capestro che è stata sottoscritta con l’Europa per ricevere gli agognati fondi del Pnrr e quindi l’abbattimento dell’arretrato pari al 40 percento. Un numero, è ormai chiaro a chiunque frequenti le aule di giustizia, che è difficilissimo raggiungere entro la prossima estate. Il governo per correre ai ripari, utilizzando altri fondi del Pnrr, ha deciso allora di istituire una maxi task force di 500 magistrati per smaltire i processi, effettuando udienze solo da remoto. La classica mossa da “ultima spiaggia” che arriva a mettere in soffitta il giudice naturale, facendo decidere cause a magistrati che si trovano a mille chilometri di distanza.

Per non mancare l’obiettivo, e dover restituire i soldi a Bruxelles, è partito un produttivismo sfrenato con nefasti effetti sulla qualità delle sentenze. Se un magistrato deve scrivere sentenze come se si trovasse in una catena di montaggio, quale può essere il loro livello? La pressione allo smaltimento per raggiungere gli obiettivi del Pnrr ha un altro effetto surreale: la spinta alla conformazione. Per evitare che la Cassazione possa riformare una sentenza, e dunque che la stessa torni indietro finendo per essere assegnata al collega, il magistrato in appello è sempre più “appiattito” all’indirizzo della Corte, in una sorta di cultura del precedente che può valere per gli ordinamenti di Common law ma non per quello italiano. Ciliegina sulla torta sono poi le convalide dei provvedimenti dei trattenimenti dei richiedenti asilo.

Il governo nei mesi scorsi ha spostato questa competenza, in maniera del tutto irrituale, dalle Sezioni protezione internazionale dei tribunali alle Corti d’appello. Le Sezioni erano organizzate per gestire le convalide e gli erano stati raddoppiati gli organici. Gli organici delle Corti sono invece rimasti gli stessi pur a fronte di una funzione in più. La motivazione è stata che i magistrati delle Sezioni protezione internazionale, fortemente “ideologizzati”, avrebbero ostacolato il protocollo Albania. Il risultato è stato che Corti d’appello come quella di Roma, preso atto dell’impossibilità di gestire con i numeri attuali anche le convalide, hanno applicato in secondo grado giudici che erano in servizio presso la Sezione protezione internazionale del tribunale. Oltre a discutere di separazione delle carriere, sarebbe opportuno che si avviasse, nell’interesse di tutti i cittadini, una riflessione su come far funzionare le Corti d’appello.