IL RETROSCENA

Non basterà certo implorare il governo di «non rubare il Natale ai bimbi» per essere arruolati tra i “buonisti”, ma il Matteo Salvini di fine anno somiglia poco all’uomo solo tweet e citofoni di qualche mese fa. L’armamentario dei “porti chiusi” non funziona più: non appassiona gli italiani della pandemia e spaventa l’Europa. Così, il segretario della Lega rimette la cravatta e riscopre il gusto del confronto, l’esercizio della leadership e il senso della responsabilità. E dopo mesi di immobilismo, la “linea Giorgetti” ha preso il sopravvento, fino a immaginare un possibile governo di unità nazionale con dentro tutti. «Ci sono quasi 66mila morti, solo questo ci dovrebbe dire “lavoriamo insieme”», dice Salvini, intervenendo in Senato. «Siamo il paese con il più alto numero di morti in Europa. Ma è inaccettabile che se qualcosa va bene, e poche cose vanno bene, è colpa del governo, se qualcosa va male è colpa delle opposizioni, che sono sovraniste, fasciste», aggiunge. Il segretario del Carroccio è pronto a sedersi a un tavolo pur di mandare a casa Giuseppe Conte, ma non si fida di chi dovrebbe fare lo sgambetto al premier per dare il via all’operazione: quel Matteo Renzi che un anno e mezzo fa, dopo il Papeete, compì una giravolta colossale pur di “licenziare” il titolare del Viminale senza passare dalle urne. E ora che il capo di Italia viva potrebbe trasformarsiin un alleato di percorso, Salvini resta sul chi va là. Prende tempo, come ha suggerito proprio Giancarlo Giorgetti, convinto che il centrodestra sia ancora una «compagnia di ventura» non pronta a governare. Il segretario della Lega «deve utilizzare questo non breve tempo per uscire dal personaggio che gli hanno cucito addosso, e acquisire l’affidabilità di uomo di governo, interna e internazionale», suggerisce, dalle colonne del Corriere della Sera, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio dell’era giallo- verde. «È una sfida anche per lui. Il suo straordinario successo politico è stato infatti costruito fuori dal Palazzo, nei social e nelle piazze, e questo lo spinge giustamente a non fidarsi del Palazzo e delle sue manovre. Ma per governare l’Italia ci vogliono alleanze e credibilità, non basta un forte consenso elettorale».

Salvini ascolta con attenzione le parole di Giorgetti e prova a studiare la parte, spiazzando persino gli alleati. A cominciare da Giorgia Meloni, ostile all’idea di una crisi pilotata per consegnare il Paese a un governo di unità nazionale. Per questo, l’ex ministro dell’Interno corregge il tiro, rassicurando alleati ed eletori. «Governoni con dentro tutti no, un governo con pochi punti a programma, di centrodestra sì», scandisce Salvini, invitato alla presentazione dell’ultima fatica natalizia di Bruno Vespa. «E lo dico con chiarezza, non penso a un governo Salvini, ci sono tante persone che potrebbero traghettare il paese, fuori dal Parlamento». Dunque, governo tecnico sì, ma solo se di area, spiega il capo del Carroccio. I numeri per farlo nascere? Ci sono, secondo il leghista, una pattuglia di una ventina di responsabili sarebbe già pronta a sostenere il progetto. Non ne sembra persuasa Giorgia Meloni, affezionata alla linea del “voto subito” e convinta che un governo di centrodestra «rischia di avere le idee chiare ma non i numeri».

E a chi, come Silvio Berlusconi, fa notare che sulla nascita di nuove maggioranze «spetta al Presidente della Repubblica decidere», Salvini risponde: «Io non vado a cercare nessuno, non vado a caccia, se il Capo dello Stato» in caso di crisi «dovesse sciogliere le Camere e si va a votare domattina vinciamo, io sono pronto se ci fosse un governo di centrodestra, la squadra del centrodestra è pronta», aggiunge. Ma se un esecutivo di questo tipo non avesse molte chnces di vedere la luce, resta comunque in piedi l’opzione Mario Draghi, il sogno proibito di quasi tutti i partiti, di centrodestra e di centrosinistra, e del navigatissimo Giorgetti. «Sarebbe quello che ci vuole, per fare cose che un governo raccogliticcio come quello attuale, tutto e solo preso dal consenso, non potrebbe mai fare», sussurra l’esponente leghista all’orecchio del suo segretario. «Per esempio quando si tratterà di rivedere tutta la legislazione di sussidi e blocco dei licenziamenti che c’è ora. Oppure per investire i soldi europei in progetti che creino veramente crescita, unica via per un Paese con un conto debito pubblico». Perché quando il gioco si fa duro, i duri diventano moderati.