La grana è scoppiata a Montecitorio, poco prima che la Camera, per la seconda volta, negasse al Csm l’utilizzo delle intercettazioni della notte all’ Hotel Champagne contro Cosimo Maria Ferri. E dopo giorni di silenzi, un mutismo sinistro, data la pesantezza della questione. Al centro di tutto c’è il rapporto tra organi dello Stato, dopo le rivelazioni di Nicolò Zanon, ex giudice costituzionale, che pubblicamente - come svelato dal Dubbio - ha parlato di un sovvertimento della Costituzione quando il giudice delle leggi si è trovato a decidere sul magistrato-politico Ferri.

La Corte costituzionale, fino a ieri, era rimasta in silenzio. Ma ieri, quando sono partite le dichiarazioni di voto sulla richiesta di autorizzazione, l’elefante nella stanza è apparso finalmente sotto lo sguardo di tutti. A far cadere il velo è stato Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva. Che ha richiamato l’attenzione dei colleghi, sottolineando la posta in gioco: la democrazia del Paese. «C’è un convitato di pietra in questo dibattito», ha esordito, ovvero «l’organo massimo di garanzia anche rispetto agli equilibri tra i poteri dello Stato».

Il non detto della sentenza della Consulta su Ferri, spiegò Zanon nel corso della presentazione del libro “La gogna. Hotel Champagne la notte della giustizia italiana”, di Alessandro Barbano, era che «non è pensabile che si dia ragione alla Camera, perché se diamo ragione alla Camera le intercettazioni acquisite diventano prove non più valide e il rischio a catena che tutti i processi disciplinari di fronte alla sezione, quei cinque che erano stati imbastiti contro quegli sventurati partecipanti alla serata all’Hotel Champagne, finissero in nulla».

Parole gravissime, ha sottolineato Giachetti. «Se l'organo supremo di garanzia di questo Paese in qualche modo è condizionato dal non venir meno a scelte che pure vengono considerate sbagliate, fatte da altri organi della giurisdizione, è un problema» per la democrazia del Paese, ha evidenziato. Tanto da far sorgere dubbi anche su altre decisioni, come quella che bocciò l’ammissibilità del referendum sul fine vita. Un fatto tutt’altro che irrilevante, ha evidenziato il deputato renziano, che «interviene sulle garanzie che la Costituzione attribuisce ai parlamentari». Proprio per tale motivo Pittalis ha ripreso la parola, evidenziando come sia arrivato il momento di porsi il problema delle possibili «influenze esterne» sulla Consulta e annunciando «un’iniziativa per accertare i fatti così come riferiti da Zanon».

L’ex vicepresidente, nei giorni scorsi, aveva preferito il silenzio, limitandosi ad una lettera all’Unità per precisare che nessuna «pressione» c’era stata sulla Corte costituzionale. Che pochi minuti dopo gli interventi in aula ha sganciato un comunicato, ribadendo la bontà delle proprie azioni e parlando di «rappresentazione distorta delle ragioni sottese alla decisione» sul caso Ferri. Quelle intercettazioni, si legge, erano legittime e in ogni caso la questione è stata restituita alla Camera. E le diversità di opinioni tra i singoli giudici sono «fisiologiche», aggiunge la nota. Nulla di strano nemmeno nel comportamento di Franco Modugno, che si rifiutò di fare da relatore: anche in questo caso è prassi costante della Corte la possibilità di chiedere «di essere esonerato dalla redazione della motivazione e che il presidente designi in tal caso un diverso giudice redattore».

Nessuna smentita formale, dunque, sul nocciolo del discorso di Zanon. Che arriva forse, in maniera soft, solo nella chiusa del comunicato: «La Corte è un’istituzione di garanzia, che svolge un ruolo essenziale nella tutela dei diritti fondamentali delle persone e del corretto equilibrio tra i poteri - si legge -. Naturalmente, tutte le sue sentenze possono essere criticate. Tuttavia, esse devono essere valutate non in ragione di asseriti “non detti”, bensì per la maggiore o minore persuasività delle loro motivazioni».

Il caso è tutt’altro che chiuso. Anche perché Zanon, nell’intervento incriminato, era andato ben oltre, affermando che la vicenda sarebbe indicativa di «alcuni raccordi, equilibri tra poteri dello Stato». E Ferri, secondo l’ex giudice, era proprio l’obiettivo delle intercettazioni. La sua presenza, d’altronde, era prevedibile, anzi, di più, prevista: dalla lettura degli atti era emerso con chiarezza che sin da febbraio - e quindi ben prima della cena del 9 maggio 2019 all’Hotel Champagne (dove risiedeva quando stava a Roma) - gli inquirenti fossero a conoscenza della possibilità di imbattersi nell’allora deputato, il cui nome compare 341 volte nelle varie richieste di proroga delle intercettazioni telefoniche, delle quali 107 in una sola richiesta antecedente il 9 maggio. E la sua identificazione avviene almeno a partire dal 12 marzo 2019. Da qui il dubbio legittimo che Ferri, pur mai indagato, fosse un bersaglio delle indagini. Così come evidenziato da Pittalis nella sua relazione, approvata da 172 deputati contro 69 contrari.

Il Csm non avrebbe fornito adeguata motivazione circa l'effettiva «necessità» di utilizzare le intercettazioni, dato che le incolpazioni si basano «anche su altri elementi di prova». E sebbene i capi di incolpazione riguardino solo la notte all’Hotel Champagne, la sezione disciplinare ha chiesto di utilizzare anche le captazioni ambientali avvenute molti giorni dopo quella notte, senza chiarire i motivi, così come fatto per le conversazioni ritenute espressamente «non rilevanti». Infine, il Csm ha inviato alla Camera solo alcuni progressivi e «mancano 52 minuti e 3 secondi di registrazione». Tutti motivi validi, secondo la Camera, per dire di nuovo no al Csm.