Nino Di Matteo non è un qualsiasi ministro mancato. È stato il candidato virtuale del Movimento 5 Stelle alla carica di ministro dell’Interno, il posto di Matteo Salvini. Lo è divenuto, suo malgrado, soprattutto dopo un suo intervento al convegno sulla giustizia organizzato alla Camera dai pentastellati il 31 maggio di due anni fa: «Non rispondo su un eventuale mio impegno politico, ma non sono d’accordo con chi pensa che l’esperienza di un magistrato non possa essere utile alla politica», disse il pm. Parole che lo hanno perseguitato per mesi, ma che non hanno avuto alcuna particolare conseguenza concreta.

È l’antefatto dell’intervista clou degli ultimi giorni, quella data da Di Matteo a Repubblica il giorno di Pasqua e divenuta subito il carico da novanta dei pentastellati nella lite giudiziaria con la Lega. A proposito del muro alzato da Salvini e dai suoi a protezione del sottosegretario accusato di tangenti, Armando Siri, il sostituto della Direzione antimafia ha dichiarato che «la difesa a oltranza di un indagato per contestazioni di un certo peso potrebbe essere, in questo come in altri casi, un segnale che i poteri criminali apprezzano». Con un altro pezzo di teorema intinto nel veleno: «I mafiosi capiscono subito su chi poter fare affidamento».

Come se non bastasse, nel suo colloquio con Repubblica, Di Matteo ha aggiunto una proposizione che sa di architrave ideologico, per il Movimento 5 stelle: «È necessaria una svolta della politica: non si possono aspettare le sentenze della magistratura, bisogna avere la capacità di intervenire prima». Una sorta di leadership occulta, quella assunta di dal sostituto procuratore nazionale Antimafia. Anche per il prestigio dell’incarico, le sue parole assumono un peso enorme, nella guerra di nervi aperta tra le due forze di governo dopo le notizie sulle accuse a Siri. Non a caso, poche ore dopo che l’intervista a Di Matteo è in edicola, nel pomeriggio di domenica arriva una nota ufficiale del Movimento: «Le parole del sostituto procuratore della Dna, Nino Di Matteo siano un faro per ogni forza politica». E a proposito di quella frase delicatissima sull’inopportunità di attendere l’accertamento processuale, il comunicato cinquestelle aggiunge: «Ha ragione quando dice che è necessaria una svolta della politica: non si possono aspettare le sentenze, bisogna avere la capacità di intervenire prima». Ripreso alla lettera.

Da una parte le accuse neppure velate mosse da Di Matteo alla Lega sulla difesa di Siri che sarebbe quasi un modo per vellicare i mafiosi. Dall’altra quella frase incredibile, perché pronunciata da un magistrato, che manda in archivio la presunzione di non colpevolezza, ossia uno dei principi cardine della Costituzione e della democrazia. Un combinato disposto micidiale messo a disposizione del M5s in vista del Consiglio dei ministri di oggi, che si annuncia come una resa dei conti. È un’altra nota, diffusa ieri dal vicecapogruppo dei cinquestelle al Senato, Primo Di Nicola, a prefigurare la schema da spalle al muro con cui dovranno fare i conti Salvini, Siri e l’intera Lega: «Conte deve dare un segnale a tutte le forze politiche e al Paese: Siri deve uscire dall’esecutivo», avverte Di Nicola, «e se non lo fa volontariamente, sia lo stesso Conte a pretendere le dimissioni». Nei rapporti fra Siri e il presunto faccendiere Paola Arata, e in quelli tra quest’ultimo e l’imprenditore accusato di mafia Vito Nicastri, Di Nicola vede il rischio di «uno dei più grandi scandali politico- mafiosi della storia repubblicana». E visto che «i cittadini ci hanno chiesto di voltare pagina» il M5s «deve essere all’altezza: costi quel che costi. Senza sconti politici, per nessuno».

Possibilità che Siri resista nell’incarico da sottosegretario, seppur svuotato di deleghe? Sembrano scarse. Nell’intervista Corriere di sabato scorso, lo stesso Conte ha detto che sul leghista indagato avrebbe deciso lui, appunto, «nei prossimi giorni». Ora il peso di Arata nella rete leghista è ingigantito anche dal ruolo attribuito al professore e a suo figlio da un altro articolo pubblicato dal Corriere sul numero di Pasqua. Nello stesso servizio si segnala il rischio che il tesoriere del Carroccio Giulio Centemero sia chiamato dai pm di Roma a rispondere di finanziamento illecito per via del finanziamento da 250mila euro arrivato dal costruttore Luca Parnasi. Di fronte a una simile, mortifera meccanica, si dissolvono nel nulla le parole con cui il difensore di Siri, Fabio Pinelli, ha affermato che la famigerata tangente da 30mila «non è neppure mai stata offerta» al sottosegretario. Salvini, oltre che aggrapparsi alla Costituzione ( «si è innocenti fino a prova contraria» ha ricordato, lui e non Di Matteo, il giorno di Pasqua), può solo minacciare veti sul salva- Roma. Ma di fronte al maremoto giustizialista potrebbe non bastare.