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AVVOCATA DEL FORO DI TRENTO E COMPONENTE OSSERVATORIO CARCERE UCPI
“Se parli ti ammazziamo”, quella minaccia sussurrata al collo, con tanto di lenzuola inumidite e la minaccia del coltello, nel terrore più buio il “topolino” immobilizzato, è solo un frammento della denuncia del Sindacato della Polizia Penitenziaria rispetto al fatto, che sarebbe avvenuto nel carcere di Regina Coeli. Un fatto, che ovviamente dovrà essere accertato e definito nella sede più opportuna, che è e rimane sempre quella del processo penale. Anche a tutela di coloro che oggi vengono dipinti come degli “aguzzini”.
Tuttavia, la brutalità dell’accaduto impone delle riflessioni sulla direzione che il sistema penitenziario sta prendendo e su quali contenuti il carcere si riduce ad avere, rispetto a quelli tanto decantati, ma mai applicati fino in fondo, della Costituzione. Il punto non è tanto il fatto in sé, ma ciò che il fatto dello stupro è in grado di raccontare sull’educazione carceraria. Nel codice d’onore del carcere, infatti, la violenza sessuale tra uomini, indotta o costretta, non è quasi mai uno strumento legato all’affettività, ma è veicolo di messaggi criminali di sopraffazione, da un lato, e di profonda umiliazione e punizione, dall’altro. È l’indice di quanto l’illegalità e la cultura della violenza dilaghino anche in carcere, e nonostante il carcere. È l’indice di quanto il carcere sia fallimentare per l’affermazione della legalità e che, di per sé, non garantisca nessun tipo di sicurezza sociale, né di custodia, né di rientro in società. È l’indice di quella educazione criminale che prende liberamente il sopravvento, con le luci spente e il blindo chiuso. Quella realtà, che tutti noi operatori, cerchiamo di combattere, a luci accese, a viso scoperto, con sacrifici quotidiani, offrendo una alternativa di legalità e di relazione.
Personalmente, rimango convinta che il fatto disveli un problema di dignità di relazione. Quella dignità di relazione, che riguarda tutti noi, di cui anche gli operatori vengono privati dal sistema delle riforme a costo zero, in assenza di formazione e di tutela. La carenza di risorse è il leitmotiv che ricorre sempre, anche in questo caso, ogniqualvolta accade un fatto drammatico in carcere: dai suicidi, agli atti autolesivi, alle violenze, ai morti, alle torture. Un alibi, che non elimina i problemi e non esime da responsabilità. Tuttavia, è possibile operare per la legalità in assenza di personale? La mancanza di personale sanitario rende impossibile intercettare disagi e violenze, che quasi spesso vengono ritenuti “normali”, e che per questo non vengono denunciati. L’assenza di psicologi e di esperti ex art. 80 della legge sull’ordinamento penitenziario, per non parlare delle condizioni di accesso alle graduatorie e della precarietà della durata dei contratti, preclude l’accesso a forme di confidenza tutelata.
Stesse conclusioni rispetto al personale educativo, sepolto, anche a supplenza di direzioni vacanti, nella burocrazia, e impossibilitato a quella funzione naturale del contatto con il detenuto, nei colloqui. Così per il personale degli Uffici Esecuzione Penale Esterna, ormai più assorbito nelle indagini socio- familiari per la messa alla prova per il processo penale, che operativi nelle strutture detentive. Tutti aspetti di dignità della relazione, su cui finalmente, rispetto al passato, il ministro della Giustizia Marta Cartabia, sta intervenendo, investendo risorse significative, sia sull’assunzione del personale sia sulla formazione, anche mediante la valorizzazione della giustizia riparativa, che, nei rapporti tra detenuti e con il personale della Polizia Penitenziaria, potrebbe essere un valido strumento di prevenzione e di mediazione. Infatti, la formazione degli operatori è fondamentale per comprendere e per trasmettere il valore di una relazione dignitosa.
Il fatto che in carcere permanga la cultura criminale, della violenza e dell’omertà, e che il carcere agevoli queste forme di sopraffazione, anche sessuali, deve darci modo di meditare sul senso delle relazioni e ulteriormente responsabilizzare il mandato di legalità e di rieducazione che assumiamo quando varchiamo la soglia del carcere. Qualsivoglia intervento sul carcere non può infatti prescindere da una riflessione sull’educazione che il carcere produce e di quella, che in alternativa, viene offerta e dei suoi risultati, valorizzando tutti gli strumenti che garantiscano la dignità delle relazioni interpersonali, tra persone ristrette, con gli operatori e tra di essi. Il rischio del fallimento, non è solo per il carcere, ma per tutti noi e per la società.