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AULA DI GIUSTIZIA
Amir e Jamala: due storie simili, due posizioni processuali praticamente identiche, due destini diversi. Almeno in primo grado. È finito infatti con una sentenza “salomonica” il processo ai due presunti scafisti di uno dei tanti viaggi della speranza sulla rotta turca.
I giudici del tribunale di Locri, al termine di un processo infinito e condito da numerose polemiche, hanno infatti disposto una condanna a sei anni di reclusione più una multa da 1,5 milioni di euro nei confronti di Amir Babai per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina mentre hanno assolto Marjan Jamali, giovane madre single arrivata in Italia assieme al suo bambino di otto anni, che rispondeva dell’identico reato e che in quell’aula di tribunale ci era finita, proprio come Amir, a causa della testimonianza di tre passeggeri, poi svaniti nel nulla.
Due storie simili dal finale diverso quelle di Amir e Jamala. Entrambi giovani, entrambi iraniani, entrambi presenti da mesi in Turchia prima di imbarcarsi, assieme ad un centinaio di altre persone, su un veliero rubato con destinazione le coste della Calabria jonica, da almeno venti anni porta privilegiata d’Europa per le masse di disperati che scappano da fame e guerre lungo il Mediterraneo orientale.
«Tecnicamente non mi spiego questa sentenza – racconta al Dubbio l’avvocato di Amir, Carlo Bolognino – le posizioni dei due imputati erano intrinsecamente connesse tra loro e mi sarei aspettato per entrambi l’assoluzione piena. Leggeremo le motivazioni e proporremo appello, confidando che anche per Amir si possa arrivare alla fine di questo incubo». Parrucchiere, rider, operaio tuttofare, nessun precedente penale: Amir Babai era partito dall’Iran e si trovava in Turchia da qualche tempo prima di imbarcarsi verso l’Europa. E in Turchia aveva faticosamente raccolto il denaro sufficiente a pagarsi la traversata. «Il mio assistito ha preso malissimo la sentenza, come me non si aspettava una sentenza di condanna», racconta ancora Bolognino mentre il suo assistito, nel gabbione di un’aula presidiata da decine di attivisti che hanno seguito il processo fin dalle sue prime fasi, urlava di disperazione e rabbia per un pronunciamento durissimo e per molti versi inspiegabile.
Anche alla luce delle dichiarazioni dello stesso comandante della barca, Faruk Sejed – un cittadino egiziano che ha ammesso le proprie responsabilità e patteggiato la pena –, che durante il dibattimento aveva dichiarato che Babai, come Jamala, fosse un comune passeggero. Lo stesso comandante aveva poi raccontato in aula che il ragazzo, poco più di trenta anni, si trovasse sul ponte della barca e non sottocoperta, per via di una profonda ferita che Babai si era fatto al braccio durante il viaggio e che sarebbe potuta peggiorare a causa del sovraffollamento del natante.
Arrestato due giorni dopo l’arrivo a Roccella, Amir Babai si trova ristretto in carcere dall’ottobre del 2023 ma il lavoro degli attivisti della zona, impegnati da tempo per trovare al giovane una sistemazione in uno dei tanti paesi dell’accoglienza disseminati nella Calabria jonica, potrebbe presto cambiare le cose.
Meno amaro, in questa storia controversa e ancora lontana dalla parola fine, resta l’altro lato della medaglia rappresentato da Marjan Jamali, assolta lunedì da tutte le accuse dopo un calvario durato quasi due anni che la donna ha trascorso, prima del suo rilascio per opera dei giudici del riesame nel marzo scorso, tra carcere e domiciliari, con una presenza di un paio di settimane nell’ex manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia. Partita da Teheran assieme al figlio di appena otto anni, Marjan aveva raggiunto le coste della Turchia per imbarcarsi verso l’Europa alla ricerca di una vita migliore.
Ma i problemi per lei e il suo bambino erano saltati fuori già durante la traversata. I tre migranti che qualche giorno dopo la indicheranno agli inquirenti come trafficante infatti avevano tentato di approfittarsi di lei sulla barca e non erano riusciti nel loro intento solo grazie alle resistenze della giovane madre e dall’aiuto dello stesso Amir Babai, che non aveva esitato a mettersi in mezzo e fermare il tentativo di stupro. Accolta a Camini, nel reggino, all’indomani della sua scarcerazione, Marjan ha continuato a seguire il processo in aula scortata da decine di attivisti e simpatizzanti che non l’hanno mai lasciata sola, e ha faticato molto a contenere l’emozione al termine dell’udienza che l’ha mandata assolta: «Sono contenta, contentissima – racconta la giovane alla fine della lunga battaglia processuale – soprattutto per mio figlio. Questo per me rappresenta la fine di un incubo».
Finisce così, con un verdetto dolce amaro, l’ennesimo processo agli scafisti (veri e presunti) della rotta turca, da sempre ruota più debole delle organizzazioni criminali che si occupano dell’organizzazione dei viaggi lungo il Mediterraneo e bersaglio privilegiato delle indagini figlie del decreto Cutro.