C’è chi, come il magistrato Nino Di Matteo, esige delle scuse per come fu criticato quando imbastì il processo trattativa Stato-mafia. Oppure, al lato opposto, c’è chi esulta perché l’assoluzione degli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, dimostra la completa disfatta del teorema. Non è esattamente così. Le motivazioni della sentenza trattativa, a seconda di come la si legge, può far felici o scontentare tutti nel contempo. Ma c’è un dato chiaro, senza alcun errore di interpretazione, dal quale nessuno può fuggire e, quello sì, che smonta l’intera tesi accusatoria: non c’è stato alcun input da parte della politica o pezzi infedeli dello Stato a trattare, ma fu una iniziativa degli ex Ros del tutto autonoma. Parliamo del loro approccio con don Vito Ciancimino per raggiungere un solo ed unico scopo: quello di porre fine alle violenze mafiose. Nemmeno dopo fu coinvolta la politica o un governo in particolare, visto che – e questo viene ben specificato nelle motivazioni – nessuno allentò assolutamente la lotta alla mafia. Anzi, la esacerbò e ciò viene dimostrato con le numerose leggi varate nel corso degli anni. Non solo. La pseudo trattativa (ora possiamo togliere “presunta”, perché parliamo di un bluff che non portò ad alcun beneficio per i corleonesi) non ha nemmeno determinato l’accelerazione della strage di Via D’Amelio. Se c’è stata - e i giudici qui non la danno per certo -, il motivo è da ritrovarsi nell’interessamento di Borsellino sul dossier mafia-appalti.

Nessun patto tra Stato e mafia, ma una iniziativa di Mori e De Donno

Quindi nessun patto tra lo Stato e la mafia, ma una pseudo trattativa (ricordiamo che tra l'altro non esiste il reato di trattare) intrapresa personalmente da Mori e De Donno. Ed è qui che arriva la prima forte bacchettata nei confronti dei carabinieri: le trattative sono lecite, ma hanno un senso se intraprese legittimamente dal governo, l’unico corpo deputato a fare determinate scelte. In più la Corte d’Appello di Palermo contesta – e non è ovviamente un dettaglio -che i Ros non intrapresero una semplice operazione di polizia giudiziaria, sia pure con una marcata connotazione info-investigativa. Per i giudici si spinsero oltre le loro prerogative e ciò comportò un errore di calcolo.

Le motivazioni smentiscono i sostenitori della trattativa

Cade quindi un pilastro importantissimo del teorema. E sorprende che Marco Travaglio, il direttore de Il Fatto Quotidiano, scriva un editoriale per dire che le motivazioni confermano quello che hanno sempre detto. Casomai l'esatto contrario. L’ex ministro Calogero Mannino non ha dato avvio ad alcuna trattativa per poter salvare la propria pelle. Non è poco, perché - secondo i giudici stessi - ciò ha una rilevanza decisiva stabilire se il loro unico fine fosse quello di far cessare le stragi, oppure quello di salvare la vita a singoli esponenti politici cui erano legati da rapporti di reciproco interesse e convenienza, o con cui avevano legami non del tutto trasparenti. Ed ha una rilevanza decisiva non soltanto per la possibile immediata sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, almeno per la posizione degli intermediari istituzionali, ma pure perché può discenderne una diversa ricostruzione dell’iniziativa intrapresa dai carabinieri attraverso i contatti con Ciancimino. È così infatti è stato.

I governi non hanno rispettato i punti del presunto papello

Altra narrazione decostruita, ma che Travaglio ha sempre portato avanti assieme ai pm che imbastirono il processo, è quella dei governi che avrebbero rispettato i punti del presunto papello. Altra sciocchezza ben decostruita. Il teorema narra della sostituzione dell’allora ministro degli interni Vincenzo Scotti con uno più morbido, ovvero Nicola Mancino. Parliamo di una lettura “trattativistica” degli eventi della politica italiana. In realtà la delegazione democristiana nel nuovo governo fu interamente rinnovata, nella sua composizione, rispetto alla precedente compagine, in conformità ad una precisa indicazione strategica (vennero confermati, dei ministri uscenti, sia pure per essere destinati a incarichi diversi, Maria Rosa Russo Jervolino e, appunto, lo stesso Scotti), che aveva motivazioni squisitamente politiche: furono esclusi dalla lista dei democristiani designati dal partito a far parte del nuovo governo coloro che (come Paolo Cirino Pomicino) si erano rifiutati fino all’ultimo di sottostare alla regola dell’incompatibilità tra lo status di parlamentare e gli incarichi di governo, ad eccezione di Scotti, per il quale tuttavia il segretario nazionale confidava che avrebbe rassegnato le dimissioni da parlamentare, una volta accettata la sua designazione a ministro degli Esteri. Così accadde.

Per i giudici il ministro Mancino «la guerra alla mafia la fece davvero»

A quel punto, la lotta alla mafia si ammorbidì? Nemmeno per sogno. I giudici osservano che anche per quanto concerne l’attività concretamente dispiegata dalle forze dell’ordine e dagli apparati repressivi dello Stato, con particolare riguardo agli organismi specializzati nell’attività investigativa e di contrasto alla criminalità mafiosa, non si registrò, nelle settimane e nei mesi successivi all’insediamento del nuovo governo — e del nuovo ministro degli Interni —, alcun segno che potesse far pensare a un diverso orientamento, o a un mutamento di direttive strategiche od operative del Viminale. «Né si può affermare che il ministro Mancino, nelle sue pubbliche esternazioni, come nella concreta azione a capo del Viminale, abbia minimamente fatto rimpiangere l’intransigenza del suo predecessore nel sostenere la linea della fermezza nella lotta alla mafia e alle organizzazioni criminali in genere», scrivono nelle motivazioni. Anzi, i giudici sottolineano che, come ministro dell’interno e per quanto di competenza del suo dicastero, il ministro Mancino «la guerra a Cosa nostra la fece davvero».

Per i giudici gli ex Ros agirono da soli e  in "maniera improvvida e sciagurata"

Gli ex Ros, quindi, agirono da soli e - secondo i giudici - lo fecero in maniera improvvida e sciagurata. Non accolgono la ricostruzione della difesa e addirittura prendono per assodato che la mancata perquisizione del covo di Riina (anche se in realtà non era il covo, ma l’abitazione della famiglia) fosse un segnale nei confronti dell’ala moderata rappresentata da Provenzano. Perfino quest’ultimo fu – sempre secondo i giudici – agevolato in maniera soft nella latitanza. In realtà sono passaggi fortemente opinabili anche perché sono aspetti che gli ex Ros hanno affrontato nei processi specifici dai quali sono usciti pienamente assolti. Diversi passaggi della motivazione sulla pseudo trattativa restano abbastanza contraddittori e si comprende visto che comunque sia, i giudici ritengono il contatto tra i Ros e Ciancimino una iniziativa improvvida.

Gli scontri  in procura sono evidenziati dalle sentenze del Borsellino quater

Così come destano stupore alcuni passaggi dove sembra che Borsellino non avesse avuto alcuno scontro in procura. Anzi, sembrerebbe che la colpa fosse dei giornali dell'epoca con l'uscita dello scandalo dei diari di Falcone. In realtà non è esattamente così. Manca nelle motivazioni - ma è solo uno dei tanti elementi non evidenziati -, la citazione del verbale al Csm della sorella di Giovanni Falcone. Quella testimonianza, messa insieme alle altre, fa comprendere che qualcosa di poco chiaro è accaduto in quell’ambiente definito, da Borsellino stesso, il “nido di vipere”. Ma questo approfondimento è di competenza della procura di Caltanissetta, anche perché le sentenze del Borsellino quater danno una descrizione completamente diversa, evidenziando - tra le altre cose - cosa disse il giudice alla moglie Agnese il giorno prima della strage: «Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò accada».