Il Consiglio superiore della magistratura, e tutto ciò che rappresenta, ha senso solo se costituisce la condizione senza la quale non si realizza la giustizia come noi la intendiamo», sottolinea Alessio Lanzi, avvocato e ordinario di diritto penale all’Università di Milano Bicocca, nel suo ultimo libro edito per Mimesis contesti e dal titolo “Csm e Giustizia, il possibile rischio di un rapporto asimmetrico”, presentato ieri al Palazzo di giustizia del capoluogo lombardo.

«Nel 2018 una telefonata di Niccolò Ghedini mi propose di andare al Csm, mi riservai di accettare e valutai la cosa prima di accettare», esordisce Lanzi che poi farà parte dal settembre di quell’anno allo scorso febbraio dell’organo di autogoverno delle toghe in quota Forza Italia. L’avventura al Csm inizia con la “battaglia per la vicepresidenza”, prosegue Lanzi che, forte dei discorsi del capo dello Stato che spingeva per vicepresidente tecnico e non politico, era certo di raggiungere l’obiettivo. «Mi consideravo in una botte ferro visto il cv: professore ordinario per 40 anni, oltre 170 pubblicazioni, avvocato in procedimenti importanti», ricorda Lanzi che non aveva fatto i conti fino in fondo le correnti della magistratura e che gli preferiranno David Ermini, parlamentare ed ex responsabile giustizia del Pd. Figlio di un magistrato, Lanzi racconta anche la non “felice” esperienza del padre con le correnti. «Negli anni 70 era procuratore aggiunto a Milano e aveva fatto domanda per una procura. Venne battuto da un procuratore di una procura di un paese di 4000 abitanti in provincia di Messina con 2 soli sostituti, poi soppressa nel 2013», ricorda Lanzi.

Al padre, rimasto incredulo, venne detto che non essendo iscritto a nessuna corrente non era stato votato. Oscar Lanzi fece allora ricorso alla giustizia amministrativa che gli diede ragione. «Ma il Csm non si adeguò mai», prosegue Lanzi che scrisse «anche una vibrata protesta inviata al vice presidente del Csm in carica». Senza alcun successo. Ma come mai le correnti sono cosi potenti? Il motivo è semplice. C’è un dato numerico, con la componente togata che è esattamente il doppio di quella laica, e poi il legame strettissimo con il territorio. Il consigliere togato risponde direttamente a chi lo ha votato il quale a sua volta ne controlla in tempo reale l’operato. Le soluzioni sono due: sorteggio temperato e voto a scrutinio segreto. In tale scenario la presenza dei laici eletti dal Parlamento, e dunque rappresentanti della società civile, è fondamentale. Senza di essi «il Csm sarebbe un doppione dell’Anm», puntualizza Lanzi, criticando il Testo unico della dirigenza giudiziaria con indicatori del tutto discrezionali che si possono prestare a supportare la candidatura di qualsivoglia candidato.

Nel libro sono poi descritti alcuni momenti drammatici che hanno segnato la scorsa consiliatura, primo fra tutti il Palamaragate. Lanzi riporta poi nel libro una intervista rilasciata al Dubbio in cui all’inizio della pandemia nel 2020 stigmatizzava la spettacolarizzazione con cui la procura di Milano indagava sulle morti al Pio Albergo Trivulzio. «Un processo di piazza», disse Lanzi, prima di finire sotto il tiro dei togati con l’accusa di delegittimare l’attività dei pm milanesi. Diversi gli argomenti, per Lanzi, che non si posso toccare, come la separazione delle carriere o l’obbligatorietà dell’azione penale. Nel racconto non poteva mancare infine un accenno al ruolo dell’Avvocatura e le barricate al Csm quando si discuteva degli avvocati e del loro voto nelle valutazioni di professionalità delle toghe. «Il Csm, va detto, è una struttura agile ed efficiente, ma deve offrire un servizio giustizia alla società civile», conclude quindi Lanzi.