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©Claudio Papi/LaPresse 04-05-1978 Torino Archivio Storico Politica - Varie Nella Foto: Da sx Renato Curcio , Mario Moretti e Alberto Franceschini leggono il giornale durante un processo
Una cosa è certa, dopo cinquant’anni non ci può essere giustizia. Ma è giunta l’ora di sgominare le Brigate rosse. Quindi la giudice torinese Ombretta Vanini ha deciso di mandare a processo un gruppo di ottantenni per un delitto del 1975 per il quale il principale imputato era stato già prosciolto in una vecchia istruttoria di cui non esistono più documenti, annegati in un’alluvione.
È tutto surreale in questa inchiesta che coinvolge la storia infinita delle Brigate rosse e di quel che fu in Italia negli anni settanta, quando fu rapito e ucciso il presidente del maggior partito italiano, la Democrazia cristiana, Aldo Moro. Bisogna avere una certa età per ricordarsene personalmente oggi. Ma provvede la magistratura, con pubblici ministeri e giudici a loro omogenei, sempre in trincea e in lotta. Fermeremo le Brigate Rosse, pare dire questo processo.
L’accusato principale si chiama Lauro Azzolini, ha 81 anni, è stato un dirigente del gruppo terroristico e ha scontato lunghi anni in carcere. Se il prossimo 25 febbraio sarà alla sbarra alla corte d’assise di Alessandria con il vertice massimo delle Br, l’ottantatreenne Renato Curcio e il settantasettenne Mario Moretti, accusati di concorso morale in un omicidio, è a causa di un esposto del 2021. A salire le scale della procura di Torino è un carabiniere in pensione, Bruno D’Alfonso, che era un bambino di dieci anni quel tragico 4 giugno del 1975 quando suo padre Giovanni fu ucciso in uno scontro a fuoco in cui rimase sul terreno anche Margherita Cagol, nome di battaglia “Mara”. Giustiziata, ha scritto in un libro suo marito Renato Curcio, ma quella morte fu archiviata senza particolari indagini.
Per la morte dell’appuntato dei carabinieri fu inizialmente indagato Lauro Azzolini, individuato come il brigatista che era riuscito a scappare dopo la sparatoria. Lo scenario era la cascina Spiotta, dove la colonna piemontese delle Br aveva realizzato il primo sequestro di persona a scopo di finanziamento, dopo aver rapito il re dello spumante Vittorio Vallarino Gancia, morto novantenne due anni fa. Azzolini finirà prosciolto in istruttoria, con il vecchio rito processuale, su richiesta dello stesso pm, il 3 novembre 1987. La sentenza-ordinanza evidenzierà le testimonianze del sequestrato e di tre carabinieri, nessuno dei quali lo aveva riconosciuto.
Caso chiuso, quindi, fino al 2021. Quando inizia il vero processo surreale, quando i testimoni sono ormai deceduti, con decine di intercettazioni nei confronti di ex brigatisti e un solo labile indizio nelle mani degli inquirenti, un manoscritto anonimo e interno all’organizzazione in cui si descriveva lo svolgimento dei fatti finiti in tragedia. Ventotto erano le impronte ritenute utilizzabili, e di queste undici venivano attribuite, a distanza di cinquant’anni, ad Azzolini. Ma quel documento era passato di mano in mano, tutti avevano voluto leggerlo e commentarlo.
C’era comunque un problema enorme da affrontare da parte della procura distrettuale torinese, il principio del “ne bis in idem”, perché non si può processare due volte chi sia stato già assolto, se non per motivi gravissimi e dopo aver revocato la sentenza precedente. Ma quella che riguardava Azzolini non c’era più, annegata nell’esondazione del fiume Tanaro nel 1994. La procura non ha potuto esaminarla, pure ha dato ugualmente l’autorizzazione alla revoca del provvedimento, in data 15 maggio 2023. È questa una delle principali anomalie del processo, come ha più volte fatto rilevare l’avvocato Davide Steccanella.
Ma c’è di più. Perché al suo assistito Lauro Azzolini è stato applicato un trojan a partire quanto meno dall’autunno del 2022, quando l’indagine era ancora ufficialmente contro ignoti. E nonostante una nota dei carabinieri già dall’aprile del 2022 suggerisse che si dovesse “concentrare il focus su Azzolini perché è lui il brigatista fuggito dopo la sparatoria”. All’udienza davanti al gup il legale si è sentito dire che se anche a una persona viene applicato un costoso trojan per mesi e vengono comparate le impronte, questo non significa che lo si stia indagando. Non un grande argomento, e se ne vedrà la solidità nell’aula della corte d’assise di Alessandria il 25 febbraio. Quando ci saranno anche, altro paradosso dell’inchiesta, Renato Curcio e Mario Moretti, rinviati a giudizio per concorso morale nell’omicidio. Ma si, è ora di sgominare le Brigate Rosse.