Naturalmente, un principio fondamentale della razionalità giuridica, non rinunciabile, risiede nella proporzione fra la gravità del delitto commesso e la pena prevista per lo stesso.

Si badi. Compatibilmente alla impostazione utilitaristica tipica di Beccaria, tale proporzione non risponde ad alcuna esigenza di carattere metafisico, nel senso della sostanza essenziale delle cose, ponendosi invece nell’ottica del tutto illuministica della necessità di opporre al peso gravitazionale del delitto, un contrappeso di segno eguale e contrario, ma in ogni caso non eccessivo rispetto al primo.

Beccaria, non estraneo ad una cultura matematizzante tipica del settecento, ama infatti ricorrere ad un lessico di tipo fisicogeometrico per far meglio intendere e spiegare i propri assunti teorici: ecco dunque l’uso del paragone con la gravitazione dei corpi. Si capisce bene la prospettiva da cui muove Beccaria, considerando la chiusa del capitoletto in questione, laddove egli nota che se la medesima pena fosse comminata per delitti che siano di gravità diseguale, “gli uomini non troveranno un più forte ostacolo per commetter il maggior delitto, se con esso vi troveranno unito un maggior vantaggio”.

Insomma, la eventuale sproporzione delle pene non tanto si profila come intrinsecamente ingiusta – cosa che a Beccaria importava poco – quanto si palesa come inutile, anzi perfino disutile, contraria alla compagine sociale e al suo mantenimento. Come fare allora a rendere davvero le pene proporzionate al delitto commesso? Beccaria scarta decisamente i criteri allora più diffusi fra i criminalisti.

Non la semplice dignità della persona offesa può costituire misura della pena: se così fosse, si giungerebbe all’assurdo di punire con più severità, per esempio, la blasfemia, in quanto offensiva della divinità, che non l’omicidio, offensivo della vita umana.

Non la gravità del peccato commesso, che è intrinseco per molti aspetti al delitto contestato: se così fosse, infatti, si appiattirebbe ogni delitto sul dato strettamente teologico che invece deve rimanere completamente escluso dalla politica penale e criminale, rispondendo ad una logica au- tonoma e indipendente. E neppure può esserlo l’intenzione del reo: se così fosse infatti, per un verso, sarebbe necessario disporre una legge apposita per ogni uomo, vale a dire una previsione specifica per ogni intenzione, cosa evidentemente impossibile; per altro verso, non va ignorato – si noti qui l’attento realismo del giurista milanese – che uomini con la più

prava delle intenzioni finirono col giovare molto alla società, mentre uomini dotati della migliore intenzione la danneggiarono moltissimo. Unico criterio di commisurazione delle pene per Beccaria non può essere allora che il danno “fatto alla nazione”.

Per nazione Beccaria intende naturalmente la compagine sociale. Va notato come Beccaria qui sia stato in grado di indicare – e forse questo è un altro dei suoi più significativi meriti – il criterio del danno prodotto quale unico criterio accettabile per mantenere la proporzione fra pene e delitti, fondando in tal modo – ed essendone l’illustre precursore – la teoria del danno e del bene giuridico protetto dalla norma, quale premessa culturale necessaria a tutta quella ricca dottrina che – sia in campo penalistico che civilistico - costituisce la lezione giuridica fondamentale della nostra epoca. Ogni giurista infatti sa bene che la giurisprudenza e la dottrina negli ultimi decenni non hanno fatto altro che affaticarsi incessantemente alla ricerca di nuove e sempre più precise configurazioni del danno risarcibile – in sede civilistica – e punibile – in sede penalistica, per la miglior tutela della parte lesa: ebbene, la genesi di tanta qualità giuridica va ritrovata fra queste pagine, fra queste idee.

E’ poi ovvio che la diversa commisurazione delle pene trae seco la necessità di distinguere come logica premessa i delitti secondo la loro gravità.

I più gravi, per Beccaria, sono quelli tradizionalmente chiamati di “lesa maestà”: sono quelli che attentano direttamente alla società, avendo di mira la sua totale distruzione. Pensiamo oggi alla strage, al terrorismo, all’attentato agli organi costituzionali dello Stato… Poi ci sono i delitti che ledono le sfere giuridiche dei privati, i loro beni, i loro interessi, le loro legittime aspettative.

Tuttavia, l’aspetto più interessante sta nel fatto che Beccaria afferma qui senza alcuna timidezza un vero dogma del diritto penale che oggi informa di se la legislazione di ogni autentico Stato di diritto: è permesso ad ogni cittadino fare ciò che non è espressamente vietato.

In atre parole, Beccaria apre qui - e lo tiene ben fermo – l’ombrello della libertà e lo apre proprio al riparo di quelle leggi di cui ha precedentemente difeso l’esistenza e la indefettibile funzione.

Nulla di più esemplare come lezione di diritto: la libertà nasce e si fonda sulle leggi, non contro o senza di esse; e le leggi devono esser tali da far nascere e sviluppare la pianta della libertà: altrimenti sarebbero solo espressione di tirannia.

LEGGI I CAPITOLI 6, 7 E 8