Le indagini svolte dal difensore per ricercare e individuare elementi di prova a favore del proprio assistito sono disciplinate nel titolo VI bis del codice di procedura penale. Vediamo alcuni casi che ci restituisce la cronaca in cui esse sono servite per scagionare o sono risultate inutili per provare la presunta innocenza di una persona.

DOPO 5 ANNI SCAGIONATO IL MARITO DI CINZIA BRUNO

La mattina del 4 agosto 1993 Cinzia Bruno, moglie di Massimo Pisano, dopo aver telefonato alle 8.30 circa in ufficio per ottenere un giorno di permesso, chiedendo alle sue colleghe di non comunicarlo al marito, si reca a Riano (RM) a casa di Silvana Agresta, che sospettava essere l'amante del marito, con la quale ingaggia una zuffa violenta. Una coppia di vicini di casa dell'Agresta sente una voce femminile lamentarsi, ripetutamente, intorno alle 12. Il cadavere di Cinzia, sgozzato ed oltraggiato verrà ritrovato sul greto del Tevere il pomeriggio del 6 agosto. Al termine del processo di primo grado il marito della donna e la sua amante vennero condannati all’ergastolo, nonostante Massimo avesse un alibi, il lavoro, nel quale tuttavia gli inquirenti ritennero ci fosse un buco di un’ora.

La sentenza viene confermata dalla Cassazione nel 1996. Dovranno passare cinque anni perché la verità emerga: nel febbraio 2001 la Corte d’appello di Perugia accoglie la revisione e assolve l’uomo. All’ora del delitto, verso le 12 del 4 agosto 1993, viene accertato finalmente che lui era al lavoro, come aveva sempre sostenuto. Si è potuti giungere a liberare un innocente dal carcere grazie alle indagini difensive dei suoi avvocati Stefano Giorgio e Barbara Auleta: gli elementi di prova già acquisiti furono valutati congiuntamente alle prove nuove assunte nel giudizio di revisione (esame del fratello della co-imputata Aniello Agresta, consulenza tossicologica, deposizione del geometra Giammattei).

OMICIDIO VOLONTARIO: INNOCENTE DOPO 4 ANNI DI CARCERE

Nel processo “Iscaro – Saburo” a carico della mafia garganica, grazie alle indagini difensive svolte dall’avvocato. Michele Vaira, è stato possibile dimostrare l’alibi di Ivan La Fratta, accusato di omicidio volontario. “Dopo quattro anni di carcere - si legge sul sito del legale - e con una Procura che ha colpevolmente omesso di raccogliere prove a favore dell’accusato (come prevede il codice di procedura penale), grazie alle indagini difensive è stata accertata la sua innocenza e risarcito per l’ingiusta detenzione”. “Quella notte - gli raccontò il ragazzo - ero con amici. C’era una ragazza. Si ricorderà di noi. Abbiamo dormito in un hotel sul lungomare, non ricordo quale” a Rimini.

Grazie all’aiuto di una investigatrice privata fu trovato l’albergo, rintracciata la ragazza e con l’analisi dettagliata della sim del ragazzo si è dimostrato che era lontano dal luogo del delitto.

MOLISE: NON CI FU QUELLA CENA TRA EX PM, GIORNALISTA E GOVERNATORE

A giugno dello scorso anno l’ex pm di Campobasso Fabio Papa (oggi a Chieti) e la giornalista molisana Manuela Petescia sono stati assolti dall’accusa di tentata concussione ed estorsione ai danni dell’ex presidente della Regione Molise Paolo di Laura Frattura, nonché violazione di segreto d’ufficio, abuso e falso.

Secondo la Procura i due nel corso di una cena organizzata in casa del magistrato “nell’autunno 2013” avevano organizzato questo ricatto: o si mette mano alla legge sui fondi alle tv e si finanzia Telemolise oppure “finisci a pezzi nell’indagine su Biocom, condotta dal pm Fabio Papa, in cui il governatore Paolo di laura Frattura era coinvolto”, ricorda il Fatto Quotidiano. Le indagini difensive, anche grazie all’uso delle celle telefoniche, hanno permesso poi di acclarare che in realtà quella cena a quattro non c’era mai stata.

UN 46ENNE ASSOLTO DALL’ACCUSA DI VIOLENZA SESSUALE

A.D.G, 46enne di Surbo, all’esito di un processo discusso con il rito abbreviato in cui rischiava sei anni di reclusione per stalking, lesioni e violenza sessuale, è stato riconosciuto responsabile dei primi due reati e assolto da quello più grave. Il legale dell’uomo, l’avvocato Enrico Gargiulo, aveva svolto delle indagini difensive, raccogliendo alcune testimonianze che avrebbero minato la credibilità della vittima.

490MILA EURO DI RISARCIMENTO DOPO LA REVISIONE DEL PROCESSO

Finì ingiustamente detenuto in carcere per una rapina violenta, ma 11 anni dopo i fatti lo Stato si trova a risarcirlo di 490.000 euro all'esito di una revisione del processo presso la corte di appello di Genova che ha stabilito che aveva un alibi. La vicenda riguarda un muratore tunisino, ora 43enne, che venne condannato per rapina aggravata a 4 anni e 8 mesi di cui scontò tre anni e mezzo in carcere.

L'accusa, viene ricostruito, riguardava un fatto nella notte del 7 settembre 2011 alla stazione di Viareggio (Lucca), una rapina dove rimase accusato - e poi imputato nei processi - per via della testimonianza di un uomo assalito di notte da due giovani con ascia e coltello che disse di averlo riconosciuto come autore dell'aggressione. Gli avevano rapinato il portafoglio con 100 euro.

Il tunisino Mounir Knani, titolare di una ditta edile artigianale, entrò così in una trafila processuale e venne condannato dal tribunale di Lucca il 30 maggio 2012 e dalla corte di Appello a Firenze il 27 giugno 2014. Venne recluso, ma le indagini difensive del suo avvocato,

Stefano Gambini, dimostrarono che l'uomo la notte della rapina era in casa dove c'erano la fidanzata italiana, poi diventata moglie, la figlia di lei e un'altra donna, tunisina, che peraltro indicava come colpevole della rapina il suo ex fidanzato. In base a queste testimonianze la Cassazione ha disposto la revisione del processo. Davanti alla corte di Appello di Genova il tunisino è stato assolto “per non aver commesso il fatto”. Fatta la domanda di riparazione, per l'indennizzo da ingiusta detenzione, il 28 ottobre scorso è diventata definitiva l'ordinanza della corte di Appello di Genova del 14 marzo 2022 che quantifica 235,82 euro per ogni giorno di ingiusta detenzione in carcere e 117,91 euro per ogni giorno ai domiciliari - totale 305.850,54 euro - cui vengono aggiunti i mancati guadagni per non aver potuto lavorare.

14 ANNI, È 100MILA EURO DI SPESE LEGALI PER ESSERE ASSOLTO

«Tra spese legali, consulenze e indagini difensive il mio processo, durato ben 14 anni, è costato almeno 100mila euro, una cifra enorme»: a raccontare al Riformista la sua esperienza e i costi della giustizia che di giusto ha poco e niente è l’avvocato Ugo de Flaviis, processato ed assolto dall’accusa di disastro colposo a seguito di una violenta alluvione nel Nocerino che, nell’ottobre del 2007 quando lui era assessore all’Ambiente, provocò la rottura degli argini nella zona di Merighi, vicenda per la quale la Procura aveva chiesto un anno di reclusione e che invece si è risolta con l’assoluzione piena. “Il mio processo avrebbe richiesto la presenza di tecnici specializzati e invece le indagini furono affidate a un sottoufficiale dei carabinieri che non aveva alcuna competenza in materia – racconta de Flaviis – Ho dovuto richiedere una consulenza a un professore ordinario di ingegneria idraulica, il costo? 10mila euro”, ha spiegato.

GARLASCO: LE INVESTIGAZIONI NON RIUSCIRONO A FAR RIAPRIRE IL CASO

Nel famoso caso dell’omicidio di Garlasco, per cui Alberto Stasi è stato condannato in via definitiva a sedici anni per la morte della sua fidanzata Chiara Poggi, la mamma del ragazzo non si è mai arresa nel dimostrare l’innocenza del figlio e nel 2016, tramite i suoi avvocati, affidò ad una agenzia di investigazione il compito di scovare qualche elemento sfuggito o sottovalutato dagli inquirenti. Ed ecco spuntare il nome di Andrea Sempio, amico del fratello di Chiara, a cui è stato prelevato a sua insaputa il Dna da una bottiglietta d'acqua e da un cucchiaino e comparato da un genetista con quello rinvenuto sotto le unghie della vittima. Il tutto finì in un nulla di fatto e Sempio venne ritenuto completamente estraneo alla vicenda.

CASO RAGUSA: LEGALI DEL MARITO FARANNO RICORSO IN CASSAZIONE

A dicembre 2022 La terza sezione penale della Corte d’Appello di Genova ha giudicato inammissibile la richiesta di Antonio Logli di revisione della sentenza di condanna a 20 anni, confermata in Cassazione a luglio 2019, per la morte della moglie Roberta Ragusa, il cui corpo non è mai stato trovato. La decisione è arrivata dopo che i legali dell'uomo avevano richiesto la riapertura del processo sulla base di nuovi elementi emersi dalle indagini difensive, ossia un “nuovo testimone chiave capace di mettere in discussione l’intero impianto accusatorio”. I legali hanno annunciato ricorso in Cassazione.