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ROBERTO SCARPINATO, SENATORE DELLA REPUBBLICA, EX PROCURATORE GENERALE DI PALERMO E COORDINATORE COMITATO M5S PER LA LEGALITÀ E LA GIUSTIZIA
«Siamo tutti Roberto Scarpinato». Con questa dichiarazione corale, i senatori del Movimento 5 Stelle hanno trasformato l’aula di Palazzo Madama in un teatro dell’assurdo, alternandosi a parlare dallo scranno dell’ex magistrato palermitano per protestare contro il disegno di legge sul conflitto di interessi in Commissione Antimafia. Una messa in scena che il Partito Democratico ha prontamente applaudito, seguendo ancora una volta i propri becchini (le recenti sconfitte elettorali dovrebbero far riflettere), denunciando una presunta legge ad personam, «punitiva e persecutoria».
Ma c’è un piccolo dettaglio che sfugge a questa narrazione eroica: Scarpinato non è un osservatore esterno della vicenda che la Commissione Antimafia è chiamata a esaminare. È, invece, uno dei protagonisti di quella storia. E questa non è un’opinione, ma un fatto documentato. Dietro questo muro creato dal M5S c’è una falla che chiunque abbia familiarità con i fatti storici e giudiziari può scorgere. Il disegno di legge non intende espellere Scarpinato dalle indagini antimafia in generale, ma correggere un’evidente anomalia. Se il Parlamento non corregge questa stortura, il rischio è che tutto resti dentro le consuete cortine del potere.
Il conflitto che nessuno vuol vedere
Facciamo un passo indietro. La Commissione Antimafia sta indagando sulla strage di via D'Amelio, con particolare attenzione al dossier “mafia-appalti” redatto dai Ros dei Carabinieri sotto la supervisione di Giovanni Falcone. Un fascicolo che Paolo Borsellino considererà di vitale importanza e che collegherà direttamente alla strage di Capaci. Un'indagine che faceva luce sui rapporti tra Cosa Nostra e le grandi imprese, tra mafia e politica, tra criminalità organizzata e i salotti buoni della grande borghesia.
Ebbene, Scarpinato – all’epoca magistrato – è stato tra i titolari di quel procedimento e, nei fatti, ha chiesto l’archiviazione delle posizioni legate a esso: vertici delle grandi imprese coinvolte e mafiosi del calibro dei fratelli Buscemi e Pino Lipari, con poche righe di motivazione. Come scrissero i magistrati nisseni nell’ordinanza “Mandanti occulti bis”, quelle scelte provocarono uno “scompenso” investigativo. Giuseppe D'Avanzo, in un’inchiesta a puntate, denunciò tale anomalia. Il punto controverso sul quale la Commissione sta facendo luce è esattamente questo. D’altronde tutto è iniziato con l'audizione dell'avvocato Fabio Trizzino e di Lucia Borsellino. E proprio in quel contesto si verificò il primo battibecco tra l’audito e il senatore Scarpinato. Un battibecco inevitabile visto che, giustamente, l’ex magistrato si è ritrovato costretto a difendersi. Ma da componente della Commissione. Ora, la domanda è semplice: come può un senatore che è stato titolare del dossier “mafia-appalti” sedere in una Commissione chiamata a valutare proprio quegli eventi? Come può valutare le proprie scelte? Come può giudicare se quelle decisioni furono corrette o rappresentarono un errore investigativo? Ma c'è anche un discorso ancora più ampio che non si limita a “mafia-appalti”. Parliamo di un procuratore che ha dedicato quasi tutta la sua esistenza lavorativa a promuovere teoremi puntualmente fallimentari. Gli stessi teoremi che ha voluto riproporre in Commissione.
Le intercettazioni che pongono domande
Le recenti intercettazioni, pubblicate dalla stampa e trasmesse in prima serata dal programma “Lo stato delle cose” di Massimo Giletti, tra Scarpinato e l’ex magistrato Gioacchino Natoli – indagato quest’ultimo dalla Procura di Caltanissetta guidata da Salvatore De Luca per presunte irregolarità relative a indagini sui rapporti tra i mafiosi Buscemi e la Ferruzzi-Gardini – sollevano interrogativi. “Ho intenzione di seppellire la Colosimo sotto una montagna di documenti”, dice Scarpinato riferendosi alla presidente della Commissione Antimafia, Chiara Colosimo.
Non sono parole pronunciate in un momento di rabbia, ma l’esposizione lucida di una strategia. Per difendersi, Scarpinato, da Giletti, ha sostenuto che tale espressione sarebbe stata motivata dal fatto che la presidente Colosimo non gli avrebbe permesso di porre domande durante i lavori della Commissione. Una giustificazione che stride con i fatti: le domande le ha poste eccome, ma a un certo punto è stato invitato a non trasformare il suo intervento in una requisitoria. Ma c’è un dettaglio cronologico ancora più significativo. Secondo quanto riportato dalla stampa, quella frase fu pronunciata nell’agosto del 2023. È curioso, perché in quella data non erano ancora iniziati i lavori della Commissione sul dossier “mafia-appalti”. Anzi: la questione fu sollevata per la prima volta dall’avvocato Fabio Trizzino, portavoce dei figli di Borsellino, solo a fine settembre 2023. Come mai, dunque, Scarpinato avvertiva già la necessità di “seppellire di documenti” la presidente della Commissione prima ancora che si affrontasse il tema che oggi contrasta con tanta determinazione?
La legge necessaria
Di fronte a questo quadro, M5S e Pd gridano alla persecuzione. La senatrice Ada Lopreiato denuncia la violazione dei “requisiti di generalità e astrattezza”. Il senatore dem Andrea Giorgi parla di “irretroattività” e “indeterminatezza”. Ma il punto non è solo tecnico-giuridico. Il punto è politico ed etico. È accettabile che un componente della Commissione Antimafia partecipi alle indagini su vicende di cui è stato protagonista? È normale che chi ha condotto il procedimento “mafia-appalti” possa oggi valutare se stesso? È legittimo che chi ha processato più volte, perdendo clamorosamente, Mario Mori possa esaminare le stesse vicende in sede parlamentare? Non è mai accaduto nella storia della Commissione Antimafia fin dai tempi in cui è stata istituita.
E c’è chi tira fuori nomi importanti e incomparabili come Cesare Terranova. Omettendo di dire che il giudice ucciso dai corleonesi, in Commissione si occupava di mafia, non di temi dove lui era un potenziale protagonista controverso (e mai lo è stato). Lo stesso Terranova, tra l’altro, nella relazione di minoranza assieme a Pio La Torre, fu il primo a mettere in luce il discorso degli appalti pubblici, con tanto di nomi e cognomi. Non teorie astratte, entità e massimi sistemi. Terranova, tra l’altro, in un’intervista a Il Diario, due giorni prima dell'agguato mafioso, aveva anticipato la nuova linea intrapresa da Cosa Nostra: «La più grossa connotazione che io darei alla mafia oggi è quella degli appalti. L’appalto delle grandi opere pubbliche e quanto c’è dietro. L'argomento più interessante destinato a svilupparsi negli anni futuri». Il disegno di legge che vuole regolare il conflitto di interesse può essere discusso, migliorato. Ma l’anomalia di fondo rimane: come può chi è stato protagonista di quella storia giudicare se stesso?