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C’era un giudice a Napoli. Si chiamava Michele Morello. E quando gli capitò tra le mani la favola della malagiustizia lui riuscì a rovesciarla, raddrizzando il capitolo buio che si era già scritto sul caso Tortora. «Ho fatto solo il mio lavoro», diceva lui. Ma Morello aveva fatto qualcosa di più: aveva compiuto quel piccolo miracolo cristallizzato nella memoria di chi oggi ricorda il magistrato napoletano scomparso a 93 anni.
«Era un giudice di giustizia, una persona perbene. Sento per lui lo stesso dolore che si prova quando se ne va uno di famiglia», racconta Francesca Scopelliti, che di Enzo Tortora è stata compagna di vita e di lotta. Con lei riavvolgiamo il nastro fino al 1986, all’apertura del processo d’appello che ribalterà la condanna a 10 anni di carcere emessa in primo grado contro il conduttore di Portobello.
Morello è il giudice relatore, colui che spianerà la strada all’assoluzione con formula piena. Enzo Tortora lo ascolta in diretta su Radio Radicale, mentre si trova agli arresti domiciliari. E non può credere alle sue orecchie: era pronto ad affrontare un “nuovo plotone d’esecuzione”. Certo di rivivere quel clima “inquinato” che lo aveva spinto a ricusare i giudici napoletani e a disertare il processo. «Prima che la Corte si ritirasse per deliberare – racconta ancora Scopelliti -. Enzo disse la famosa frase: “Io sono innocente, spero lo siate anche voi”. Lo erano anche loro, il giudice Michele Morello e il presidente Antonio Rocco, che seppero rimettere in ordine le carte della verità zittendo quelle infami voci dei pentiti ai quali i magistrati di primo grado avevano dato credito e fiducia».
Le stesse accuse che a Morello invece erano sembrate un po’ strane, come raccontò lui stesso a Gianni Minoli. «Ricostruimmo il processo in ordine cronologico - spiegò in un’intervista a “La storia siamo noi” - e ci rendemmo conto che queste dichiarazioni arrivavano in maniera un po’ sospetta. In base a ciò che aveva detto quello di prima, si accodava poi la dichiarazione dell'altro, che stava insieme alla caserma di Napoli. Andammo a caccia di altri riscontri in Appello, facemmo circa un centinaio di accertamenti. Di alcuni non trovammo riscontri, di altri trovammo addirittura riscontri a favore dell'imputato. Anche i giudici, del resto, soffrono di simpatie e antipatie... E Tortora, in aula, fece di tutto per dimostrarsi antipatico…». L’epilogo è noto: nel 1987 la Cassazione rende definitiva la sentenza d’assoluzione. Enzo Tortora muore un anno dopo. E Michele Morello paga il prezzo della verità.
Resta isolato, “diffidato” dai suoi stessi colleghi. E finisce persino sotto disciplinare per una dichiarazione rilasciata ai cronisti dopo la lettura della sentenza: “Abbiamo condannato chi andava condannato e abbiamo assolto chi andava assolto”. L’accusa? Per il tribunale delle toghe Morello avrebbe violato il segreto della camera di consiglio, ma il procedimento si risolve in un nulla di fatto: estinto per prescrizione. «Non ebbero nemmeno il coraggio di archiviare nel merito», ha ricordato nel corso di un evento del 2022 suo figlio Tullio, a sua volta magistrato e consigliere del Csm.
Eppure, rinnovando l’istruttoria e assumendo le testimonianze che non erano mai state accolte, Morello «aveva restituito fiducia nella magistratura e soprattutto nella magistratura napoletana che con la sentenza d’appello era riuscita a riabilitarsi da quella tragedia che i giudici di primo grado avevano inopinatamente voluto condurre», racconta Raffaele della Valle, storico difensore di Tortora. A cui piace ricordare un’altra frase che resta scolpita nella sentenza di assoluzione: «Per condannare Enzo Tortora avremmo dovuto affermare una infinità di bestialità… Lo abbiamo invece giudicato con indipendenza, serenità e chiarezza». Ed ecco il punto: Morello aveva smascherato la “farsa” del giudice che si appiattisce sulla tesi della procura. Restituendo un po’ di fiducia al penalista che già allora si batteva per la separazione delle carriere. «Perdiamo un galantuomo – chiosa della Valle – un uomo che andava in fondo alle cose».
Certo, Morello non ha fatto la carriera di Lucio di Pietro e Felice di Persia, cioè dei colleghi che Tortora lo avevano fatto condannare in primo grado. Giudice del Tribunale di Napoli e poi della Corte d’appello, ha concluso la sua carriera da procuratore generale a Campobasso. Ma il suo nome, scrive l’Unione Camere Penali Italiane, «rimarrà sempre impresso nella memoria collettiva, come esempio di rettitudine e onestà intellettuale, valori sempre meno diffusi in una società che fa del processo mediatico e della superficialità populista e giustizialista la propria verità, e come esempio di coraggio perché, come ha voluto ricordare egli stesso in occasione di un’intervista: si deve agire secondo coscienza, “senza guardare in faccia a nessuno”, correndo il rischio anche di farsi dei nemici».
Morello forse ne aveva collezionati troppi, ma è riuscito comunque a ottenere quei riconoscimenti che pensava di non “meritare”. Prima con il Premio internazionale Nassiriya per la pace assegnatogli due anni fa, poi con la targa che Francesca Scopelliti gli ha consegnato personalmente nel 2024 durante un evento a Napoli. Una piccola magia, che riconciliò anche Enzo Tortora con la città che lo aveva “assediato”, ricorda oggi Scopelliti. La stessa magia, pensiamo noi, che anni prima aveva colpito la famiglia Morello, quando Tullio diede il suo primo voto da diciottenne al presentatore sotto processo. «Ma come, voti per un indagato?», protestò il padre. A cui giunse la risposta e l’abbraccio del figlio dopo il verdetto di assoluzione: «E così io avrei votato per un indagato?...».


