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INAUGURAZIONE ANNO GIUDIZIARIO DELLA CORTE DI CASSAZIONE MAGISTRATO MAGISTRATI TOGA TOGHE ROSSA ROSSE ERMELLINO MAGISTRATURA
Fui arrestato a Brescia nel giugno del 2010. L’accusa era delle più gravi: capo di un’organizzazione di ‘ndrangheta e responsabile di un omicidio. Roba da rimanere in carcere fino al termine dei miei giorni. Trascinato negli infernali meccanismi dell’imperturbabile macchina della giustizia, attesi otto mesi al 41 bis nel carcere di Rebibbia la sentenza di Cassazione che mi avrebbe reso la libertà: “Nell'ordinanza relativa a Gallico Carmelo sono stati posti alla base della decisione indizi che all'evidenza difettano del requisito della gravità e travisamenti della prova, mentre non sono stati considerati altri elementi a favore del predetto”.
Immediatamente scarcerato, feci ritorno a Brescia e dopo alcuni mesi partii per Barcellona. Ma non era finita. La Procura di Reggio Calabria richiese al Gip un nuovo ordine d’arresto per l’accusa di associazione mafiosa e, senza batter ciglio di fronte a quelle identiche ipotesi, congetture e illazioni che solo pochi mesi prima i giudici di Cassazione avevano ritenuto prive di requisiti indiziari, il Gip eseguì solertemente l’ordine del Pm. Era l’antivigilia di Natale del 2011 e venni nuovamente arrestato nella città catalana, estradato in Italia, posto al regime di carcere duro e intrappolato negli infiniti tempi dell’iter processuale.
Nel marzo 2013 il primo grado di giudizio si concluse negli esatti termini richiesti dal Pm: condanna a trent’anni di reclusione, ridotti a venti per il rito abbreviato. Poco meglio il giudizio d’appello nel 2014: solo la piccola concessione alla difesa dell’esclusione del ruolo di capo dell’associazione e pena ridotta a dodici anni. Ma la Cassazione, constatata la perdurante assenza di gravità indiziaria, accolse il ricorso dei difensori e annullando la sentenza di condanna, ordinò un nuovo giudizio.
Anno 2016. Siamo al secondo appello, ed è forse qui che emerge con maggior evidenza tutta la difficoltà dei giudici di merito di accogliere sia le argomentazioni difensive, sia le reiterate censure dei giudici di Cassazione sul carente quadro indiziario teorizzato dalla Pubblica Accusa e acriticamente recepito dai precedenti organi giudicanti. L’appello, infatti, si conclude con sentenza di condanna a quattro anni. Io di anni in carcere ne avevo già trascorsi cinque e venni dunque scarcerato.
Sentenze di condanne e loro annullamento in Cassazione si alternano fino al quarto giudizio d’appello celebrato nel luglio scorso con la difesa degli avvocati Francesco Petrelli del Foro di Roma e Davide Barillà del Foro di Reggio Calabria. E a quindici anni dal mio arresto arriva l’assoluzione con la formula “per non aver commesso il fatto”. Una sentenza che con il deposito delle motivazioni e la decisione dell’Ufficio di Procura di non opporre impugnazione diventa oggi definitiva.
Alla sua conclusione, questa annosa vicenda processuale consegna l’immagine di un processo che, da una parte, è una corsa ad ostacoli per imputato e difesa, e, dall’altra parte, è un’autostrada a corsie preferenziali in cui l’accusa corre affiancata dal giudice del merito. Tanto basterebbe a dimostrare quanto sia giusta e irrinunciabile la separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante. Una questione, quella della separazione, che non si riduce allo zero virgola di magistrati che richiedono di passare da una funzione all’altra, come i suoi interessati osteggiatori vorrebbero far intendere, ma che riguarda invece e soprattutto quella difficoltà dell’organo giudicante di sottrarsi dalle influenze dell’Ufficio di Procura già dalla fase della richiesta di emissione dell’ordinanza di custodia cautelare e poi di seguito nei giudizi di merito.
Una difficoltà che, pur se inconsapevolmente, rischia di tradursi in una sorta di sudditanza psicologica anche solo per mero istintivo partigiano di organi appartenenti allo stesso corpo. Allora, il richiamo in causa della Costituzione deve andare all’art. 111 e alla previsione del giudice terzo e imparziale, equidistante tra le parti rappresentate da pubblica accusa e difesa. Una condizione, allo stato, ben lungi dalla sua realizzazione e che soltanto un radicale cambio culturale, prima ancora che normativo, potrà rendere realtà.