Rieccolo, alla festa del Fatto quotidiano. Questa volta Roberto Scarpinato ha meritato una platea tutta in piedi ad applaudire quando ha detto che sarà la Storia a dargli ragione. Quella sui “mandanti” delle stragi di mafia che gli ha dato torto nelle aule di tribunale. Ma è legittimo, per ogni sconfitto, continuare a sperare.

Che Roberto Scarpinato, professione senatore della repubblica, pensionato in toga, fosse un sognatore non ci era mai sfuggito. La sua abitudine, da pubblico ministero ”antimafia”, di andare a caccia dei reati non ancora scoperti, piuttosto che limitarsi al lavoro del burocrate che si limita a reprimere i responsabili di quelli già individuati, ne aveva fatto il numero uno dello slogan sessantottino “la fantasia al potere”.

E ancora lo ricordiamo in quella veste quando, era più o meno il 2020, l’Italia intera era preoccupata per il contagio da coronavirus e angosciante era più che mai la situazione delle carceri con i loro luoghi stretti e pericolosi per la salute. Fu in quei giorni che il procuratore generale di Palermo dottor Scarpinato, mettendosi la veste democratica in contrapposizione con quella reazionaria del collega di Catanzaro, Nicola Gratteri, che voleva costruire più prigioni, lanciò lo slogan che diventerà la sua cifra anche in politica. La prigione, disse e scrisse, è «specchio fedele delle diseguaglianze e delle ingiustizie sociali fuori dal carcere». Perché quindi non liberare un po’ di proletari e ingabbiare qualche «colletto bianco»? Aveva anche esibito i dati del Dap, in quell’occasione. Per segnalare che «in carcere a espiare la pena finisce quasi esclusivamente chi occupa i piani più bassi della piramide sociale. Il numero dei colletti bianchi è talmente esiguo da non essere neppure statisticamente quotato».

La questione carcere sta tutta lì, disse. Deve essere per questo suo sogno, una sorta di rivoluzione copernicana tra la popolazione prigioniera, che Roberto Scarpinato, fin dai tempi in cui era un giovane sostituto della procura di Palermo guidata da Giancarlo Caselli insieme ad altri prestigiosi colleghi come Ingroia e Tartaglia, coltivò l’intuizione investigativa dell’inchiesta “Sistemi criminali”. Finalmente la magistratura metteva le mani sulla cricca di potere che stava dietro le attività della mafia. Non si parlava ancora di “colletti bianchi”, ma di «una sorta di tavolo dove siedono persone diverse…il politico, l’alto dirigente pubblico, l’imprenditore, il finanziere, il faccendiere, esponenti delle istituzioni, e non di rado il portavoce della mafia».

Questo schema si dimostrerà fallimentare, l’inchiesta finirà in una bolla di sapone fino a spegnere il sogno del giovane Scarpinato. Ma lo schema si ripresenterà all’infinito. Lo ritroviamo a Palermo nel processo “Stato-mafia”, quello che ipotizzava la famosa Trattativa tra i vertici delle istituzioni e i boss. Altra bolla di sapone scoppiata nelle mani della pubblica accusa, sostenuta dal dottor Scarpinato, con sentenze di secondo e terzo grado di grande severità. Ma lo schema si trascinerà anche come un biscione che salirà dalla Sicilia fino al nord nelle inchieste, ancora aperte a Firenze dopo quattro archiviazioni richieste dagli stessi organi dell’accusa, sulle stragi mafiose del 1993. Non c’è più Silvio Berlusconi, simbolo numero uno dei “colletti bianchi”, ma ci sono Marcello Dell’Utri e soprattutto il generale Mario Mori, che possiamo definire “indagato a morte”, magari per altri quindici anni. Quando l’ex Capo dei Ros ne avrà cento, di anni. E sarà ancora lì a doversi difendere. E magari le archiviazioni, oggi siamo già a quattro, saranno state sette o otto.

Ma il fascicolo-fisarmonica si aprirà ancora perché arriverà qualche nuovo gelataio o droghiere con la voglia di chiacchierare a vanvera e qualche produttore tv pronto a finanziare le sue esibizioni canore. Lo schema del sogno è rimasto in sonno solo nella campagna elettorale che ha portato nel 2022 il dottor Scarpinato a guadagnare un seggio al Senato nella lista del Movimento cinque stelle. In quei giorni c’era da discutere e criticare le riforme del ministro Marta Cartabia, e tanto bastava. Ma si è svegliato subito dopo, in occasione dell’arresto di Matteo Messina Denaro, a torto o a ragione ritenuto fino all’ultimo il capo di Cosa Nostra, e, secondo gli storiografi dell’antimafia, il depositario di inconfessabili segreti. Che, ammesso ci fossero, comunque il boss non ha rivelato neanche in punto di morte.

Ma la sua lunga latitanza, protetta da un ambiente familiare e di quartiere che probabilmente non aveva bisogno di minacce e costrizioni, è stata occasione di un altro bel trattato di sociologia. Che ha coinvolto di nuovo “quegli ambienti”, quelli dei colletti bianchi e i loro complici nelle istituzioni. Basta con questa visione “mafiocentrica” delle stragi, può dire tranquillamente oggi che non indossa più la toga, Roberto Scarpinato. E si spinge oltre, nel suo sogno di agguantare l’Uomo Nero, il deus ex machina che ha programmato le bombe ma è stato sempre protetto dai governi, “oggi più che mai”.

Certo, perché, insieme ai colletti bianchi c’erano anche quelli neri dei fascisti che Giorgia Meloni tiene nascosti. Basta quindi con questa «narrazione che accredita le responsabilità esclusivamente a personaggi come Totò Riina, cioè i soliti brutti sporchi e cattivi». Spiace che a queste parole ci siano stati gli applausi. Perché si, questi capi mafiosi erano brutti sporchi e cattivi, e anche qualcosa di più. Erano assassini cinici e violenti, che hanno ammazzato persone innocenti e hanno cercato di attentare anche alla sicurezza dello Stato. Lo hanno scritto decine di sentenze di magistrati che andrebbero rispettati. Nell’attesa che la storia dia ragione ai sogni sessantottini del senatore Scarpinato e del suo popolo che lo applaude.