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ASSEMBLEA PLENARIA DEL CSM PLENUM DEL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA VOTO VOTAZIONE ALZATA DI MANO
«Altro che le nomine, i veri scontri tra correnti si possono vedere in episodi come questo». La voce - anonima - è quella di un consigliere del Csm. Il fatto, succoso, riguarda lo scontro consumatosi ieri in plenum attorno alla valutazione di professionalità di un magistrato, attualmente giudice a Palermo, dove è stato trasferito a seguito di un procedimento penale dal quale poi è stato assolto.
Una pratica sulla carta facile, data la condanna in sede disciplinare con parole chiare e pesanti che rendeva prevedibile una bocciatura dello scatto di anzianità della toga. Ma così non è stato e la vicenda ha richiesto circa un’ora di dibattito, con quattro toghe di Magistratura indipendente - la stessa corrente del magistrato sotto esame - favorevoli a riconoscere la quinta valutazione - determinante per l’avanzamento di carriera. Alla fine, hanno vinto i contrari: ventuno, in totale, ai quali si sommano i tre astenuti, il vicepresidente Fabio Pinelli, il togato di Area Genantonio Chiarelli e l’indipendente Roberto Fontana, in quanto relatore della sentenza disciplinare. A votare a favore della toga siciliana i colleghi di Mi Edoardo Cilenti, Marialuisa Mazzola, Bernadette Nicotra e Maria Vittoria Marchianò. Ad opporsi, le toghe di Area, Md, Unicost, l’indipendente Andrea Mirenda e tutti i laici.
Il magistrato, nel 2023, era stato condannato in sede disciplinare alla perdita di anzianità di un anno per aver intrattenuto rapporti d’affari con due fratelli di Gela - dove svolgeva funzioni di giudice -, indagati o imputati in procedimenti giudiziari (anche con accuse per fatti di mafia) da lui trattati, comprando e usando veicoli a condizioni vantaggiose dalla loro autorimessa, incluso l’uso gratuito di una Porsche Cayenne. Un atteggiamento deontologicamente non tollerato, dal momento che la norma che disciplina gli illeciti disciplinari «non prevede limitazioni temporali in ordine al divieto del magistrato di intrattenere rapporti consapevoli d’affari (o di frequentazione) con persone sottoposte a procedimento penale o di prevenzione da egli trattato».
Le contestazioni riguardano soprattutto la continuità dei rapporti commerciali e la possibile percezione negativa sulla sua imparzialità a Gela. Nonostante ciò, in plenum sono arrivate due proposte contrapposte. Mazzola, relatrice della prima, ha sottolineato che la toga in questione gode di «stima incondizionata da parte del foro, del personale amministrativo e dei colleghi magistrati» ed è considerato un «autorevole modello di riferimento per preparazione, capacità dialettica e disponibilità al confronto». E «le vicende disciplinari - ha concluso -, pur rilevanti sul piano dell’immagine e correttamente sanzionate, non hanno inciso sull’effettivo esercizio indipendente e imparziale delle funzioni giurisdizionali».
Posizione diametralmente opposta quella di D’Auria, relatore della pratica poi risultata vincente, secondo cui le vicende disciplinari sono rilevanti ai fini della valutazione. Il togato ha richiamato, infatti, le parole del gip, che pur archiviando la posizione del magistrato ha stigmatizzato i suoi rapporti con i soggetti in questione, «connotati da un trattamento estremamente vantaggioso per il magistrato» per l’acquisto delle auto, «del tutto avulso da logiche commerciali» e utile ai due fratelli come «marchio di correttezza e onestà».
La condanna disciplinare si è fondata su fatti incontrovertibili: dal 2006 al 2016, il magistrato ha comprato e venduto veicoli e ha usufruito per quasi due anni di una Porsche Cayenne in comodato gratuito, poi acquistata. La Sezione disciplinare ha sottolineato la «delicatezza del processo» in cui uno dei soggetti in questione era imputato, la continuità dei rapporti commerciali e la «palese noncuranza dell’incolpato rispetto al rischio di percezione negativa nella comunità di Gela». E se è vero che nella valutazione della professionalità va mantenuta autonomia rispetto alle decisioni disciplinari, la non occasionalità degli episodi, protrattisi per 10 anni, non poteva non essere presa in considerazione. Da qui la conclusione: i fatti accertati, ha evidenziato D’Auria, sono «gravi e idonei a determinare ripercussioni negative sulla credibilità dell’esercizio della funzione giudiziaria».
Critico l’intervento di Mirenda. «La mancanza di un comune sentire e volere pone domande altrettanto inquietanti sul perché non siamo stati capaci di convergere, pur trovandoci di fronte a una vicenda nella quale i fatti sono chiarissimi e hanno portato a una condanna disciplinare pesante, molto pesante - ha sottolineato . Una discussione di questo genere, se dovesse sfociare in una valutazione positiva, quale significato avrebbe all’esterno, se non quello di innalzare l’asticella della tolleranza deontologica ed etica a livelli siderali, astrali? Tutto sarebbe possibile. Eppure questo sta accadendo, sta maturando».
Parole rimarcate da Marco Bisogni di Unicost, che ha ricordato «il luogo in cui questi fatti avvengono» e i rapporti degli indagati/imputati con il clan Madonia. «In terra di mafia – ve lo dico per esperienza personale – palesare o evidenziare rapporti con un giudice, poter dire “ho fatto un favore a quel giudice”, poter raccontare ai cittadini “io ho prestato la macchina per due anni al giudice del tribunale” ha un impatto devastante sulla cultura e sulla percezione della legalità all’interno della città», ha evidenziato. Insomma, a suo dire il magistrato avrebbe consentito «che la sua professionalità e, io mi permetto di dire, moralità» fosse messa in discussione «da soggetti che hanno avuto condanne per favoreggiamento nei confronti di esponenti mafiosi».
Molto critica anche la laica di centrodestra Isabella Bertolini. «Questa vicenda - ha evidenziato - era molto chiara già dagli atti. Tuttavia, proprio perché si tratta di una pratica datata, come Commissione abbiamo audito» il magistrato. E l’audizione «ha fatto emergere, in modo chiaro, modalità di comportamento davvero opache - ha aggiunto -. Tutto ciò che avviene dopo, come pareri favorevoli, mi interessa poco rispetto a un comportamento complessivamente discutibile. Mi chiedo se, qualora non fosse stato un magistrato, sarebbe uscito indenne da procedimenti penali».
Il togato di Area Tullio Morello ha ricordato «che in quell’ufficio, spesso trascurato, lavorano giovanissimi magistrati, per lo più alla prima destinazione. Questo comportamento, che è stato sottolineato da tutti, assume un ulteriore grado di pericolosità, perché il modello dato a colleghi insediati lì da pochi mesi o pochi anni da un collega invece più esperto è, a mio avviso, ancora più grave». A richiamare la necessità di «una riflessione su cosa è la Commissione disciplinare» è stato il laico di Italia viva Ernesto Carbone: «Mi metto nei panni di un cittadino - ha sottolineato -, sento e leggo quello che ci siamo detti oggi e penso che questa stessa persona, in questo momento, sta facendo il giudice a Palermo». Alla fine, hanno prevalso i contrari, ma più che una semplice valutazione di professionalità, in plenum si è consumato uno scontro sulla credibilità delle toghe e sulla soglia di tolleranza verso comportamenti che il cittadino comune percepisce come incompatibili con il ruolo di magistrato. «Il vero nodo culturale - ha commentato a margine un togato - è quello dell’incapacità di una visione comune deontologica anche in casi di una gravità inaudita. Ognuno difende i suoi a spada tratta per mandare un messaggio chiaro al territorio: chi sta con noi è protetto».