Il regista Roman Polanski è stato prosciolto dalle accuse di diffamazione nella causa intentata dall’attrice britannica Charlotte Lewis. In un'intervista rilasciata al settimanale "Paris Match" nel 2019, Polanski aveva definito una "odiosa bugia" l'accusa di stupro mossagli da Lewis nel 2010. La donna, infatti, aveva dichiarato di essere stata aggredita sessualmente dal regista durante un casting a Parigi nel 1983, quando lei aveva 16 anni.

I giudici della 17esima camera correzionale del Tribunale di Parigi hanno ritenuto che Polanski non abbia abusato della sua libertà di espressione, ma la sentenza non riguarda le accuse di violenza sessuale. I giudici infatti non dovevano decidere se Polanski, 90 anni, avesse violentato Charlotte Lewis o meno, ma decidere se il cineasta franco-polacco avesse o meno fatti un “uso indebito” della libertà d'espressione nell’intervista.

 Per i suoi legali, Polanski è stato "gettato al giudizio della pubblica piazza" nel "contesto soffocante del #MeToo". Polanski, premio Oscar e Palma d'Oro a Cannes per Il pianista, è stato accusato di violenza sessuale e stupro da parte di una decina di donne nel corso della sua carriera, affermazioni che ha sempre contestato. E' considerato latitante negli Stati Uniti da più di quarant'anni, dopo una condanna per "rapporti sessuali illegali" con una minorenne di 13 anni, Samantha Gailey. Nel 1977, arrestato, accusato di aver drogato e violentato la Gailey adolescente, trascorse 42 giorni in prigione prima di essere rilasciato e fuggire a Parigi. Da allora pende sulla sua testa un mandato di arresto internazionale da parte del sistema giudiziario americano.

Processo al MeToo

Durante il processo, gli avvocati Delphine Meillet e Alain Jakubowicz, difensori del cineasta, avevano puntato il dito contro «il contesto soffocante» provocato del MeToo in cui «la testimonianza pubblica assume il valore della prova e, di conseguenza della verità». «Il movimento di liberazione della parola delle donne – avevano tuonato in aula – non può avere come corollario la privazione del diritto a difendersi». 

Da parte sua, Lewis ha affermato di aver portato Polansky davanti i giudici «per difendere in modo imperativo la reputazione e l’onore», ribadendo l’accusa di stupro: «Per me era come un padre, una specie di mentore, ho realizzato la gravità di quel che mi era accaduto solamente trent’anni dopo». Poi si è lamentata della «campagna di denigrazione distruttiva» di cui sarebbe stata oggetto dopo che la vicenda è diventata di pubblico dominio.