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Testimonianze che non tornano, ricevute che non si trovano, foto ritenute compromettenti, assalti sessuali non provati: nella settantina di pagine di motivazioni della sentenza con cui, nel maggio scorso, il Tribunale di Locri ha condannato Amir Babai a 6 anni di reclusione e 1,5 milioni di euro di multa, e assolto la coimputata Marjan Qaderi per lo sbarco di oltre 100 migranti sulle coste calabresi, c’è tutta la precarietà dei processi agli scafisti, certamente anello più debole (e più colpito) della catena legata al traffico di esseri umani sulla rotta turca.
Le storie di Amir e Marjan, giovani iraniani di etnia curda in fuga dal loro paese in cerca di un futuro lontano dal regime, si somigliano molto, anche se il percorso giudiziario ha portato i due imputati a sentenze opposte. Il processo, che ha avuto una forte eco mediatica più volte lamentata dalla pubblica accusa, ha ripercorso la storia dei due ragazzi neanche trentenni che dopo un mese passato nelle “safety house” in Turchia ad attendere il via libera dagli organizzatori, e dopo un viaggio durato cinque giorni per mare, erano stati soccorsi dalla Capitaneria di porto a circa 100 miglia dalle coste di Roccella Jonica, nel reggino, da anni porta privilegiata per i viaggi provenienti dal Mediterraneo orientale. Nel loro racconto, così come in quello degli altri passeggeri che hanno testimoniato in aula, c’è tutta la drammaticità di questi viaggi della speranza: i soldi pagati (9mila dollari per un adulto, 5mila per un minore), la lunga attesa snervante nell’entroterra turco prima del trasbordo sul natante, il viaggio in mare stipati all’inverosimile in una barca che può trasportare 12 ospiti e che era stata riempita con oltre cento persone.
A determinare la differenza tra le due posizioni poche cose, ritenute però determinanti dai giudici. A cominciare dalle testimonianze dei tre passeggeri che per primi, poco dopo avere toccato terra, avevano puntato il dito contro i due imputati bollandoli come scafisti, prima di dileguarsi senza mai comparire in aula. E poi l’esame dei telefoni: in quello di Amir i giudici hanno trovato alcune foto che dimostrerebbero che l’uomo avrebbe passato la traversata per mare sul ponte e non sotto coperta, dove erano stati confinati gli altri migranti. E poi alcuni messaggi piuttosto vaghi che lo legherebbero ai trafficanti già durante il periodo passato in Turchia in attesa della partenza. Inutili le giustificazioni del ragazzo rispetto a una ferita al braccio che avrebbe convinto gli scafisti a tenerlo lontano dalla calca per evitare il pericolo di infezioni. Così come sono state ritenute poco credibili le dichiarazioni dell’imputato che ha sempre negato la sua partecipazione al gruppo responsabile del viaggio. Una posizione mantenuta per tutto il processo ed esplosa dopo la lettura della sentenza di condanna in un pianto inconsolabile. La durezza della condanna aveva portato il giovane iraniano, intanto ritornato in carcere, a tentare, pochi giorni dopo, il suicidio tagliandosi la gola. Proposito per fortuna non portato a termine grazie al tempestivo intervento dei medici della casa circondariale.
Discorso invece diverso per il caso di Marjan, arrivata in Italia col figlio minorenne da cui è rimasta separata per mesi, prima della sua scarcerazione decisa dal Tribunale della libertà. La ragazza – la cui testimonianza è stata confermata da una famiglia di migranti rintracciati all’estero che con lei avevano diviso l’attesa in Turchia e i giorni in mare – aveva raccontato in aula della sua partenza in aereo dall’Iran, della sosta forzata nelle “safety house” durata più di un mese in attesa del via libera, del denaro pagato dal padre per il viaggio fino in Inghilterra, meta finale della traversata. Marjan aveva poi raccontato di essere stata molestata pesantemente, durante la traversata, dalle stesse persone che in Italia l’avevano bollata come scafista per essersi opposta al tentativo di stupro, testimonianza ritenuta non attendibile ma confermata da alcuni testimoni che avevano riferito di aver sentito altri viaggiatori parlare di questa sorta di ritorsione da compiere ai danni della giovane.
A determinare l’assoluzione di Marjan, scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza che la Procura ha già annunciato di voler appellare, la testimonianza del capitano del piccolo veliero – che ha patteggiato la pena – il quale aveva escluso la sua partecipazione all’organizzazione, e il ritrovamento della ricevuta di pagamento per il prezzo dei due biglietti.