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Assoluzione definitiva. Non ci saranno più aule di Tribunale per Alex Cotoia, il giovane che nell’aprile del 2020 uccise il padre con 34 coltellate a Collegno, in provincia di Torino, per difendere la madre. Non fu un gesto di odio o rabbia, ma un tentativo disperato di salvare la madre e il fratello dalla furia del padre, Giuseppe Pompa, che quella sera, ubriaco, si era nuovamente scagliato contro la moglie per aggredirla.
I giudici della V sezione penale della Corte di Cassazione hanno dichiarato inammissibile il ricorso della Procura generale di Torino, confermando la sentenza dell’appello bis che aveva assolto il ragazzo, dopo l’annullamento di una precedente condanna a sei anni e due mesi. Nelle motivazioni di quel verdetto, l’Assise d’appello di Torino aveva scritto che l’azione di Cotoia, all’epoca diciottenne, rientrava nella «legittima difesa putativa».
Alex – che durante il processo ha assunto il cognome della madre, così come il fratello – era intervenuto per proteggere la donna durante l’ennesimo litigio, in «un contesto a dir poco drammatico». Pompa è stato descritto come un uomo dominato da «gelosia patologica» e da un «insopprimibile desiderio di imporsi sui familiari», un impulso che quella sera appariva «incontrollabile», così come la sua rabbia. «Anche a voler ritenere che Alex – scrivevano ancora i giudici – abbia agito nella erronea convinzione che il padre intendesse armarsi di un coltello e, per questa ragione, lo abbia affrontato», vi erano elementi concreti e «idonei a indurre nell’imputato la ragionevole persuasione di trovarsi in pericolo».
Pompa sospettava che la moglie, cassiera in un supermercato, avesse una relazione con un collega, e voleva vendicarsi. Alex si mise in mezzo per difenderla, uccidendolo, e fu lui stesso a chiamare i carabinieri: «Voleva ucciderci tutti. Quando l’ho visto andare verso la cucina, l’ho solo anticipato», raccontò in seguito. «Dopo averla chiamata 101 volte al telefono, non appena mia madre era rientrata a casa, lui l'aveva aggredita, sembrava indemoniato — aveva raccontato—. Pensavamo che ci avrebbe ammazzato tutti». Dopo una prima assoluzione e una condanna in appello, la sentenza d’appello bis di gennaio – ora definitiva – ha chiuso cinque anni di tribolazioni giudiziarie.
Nel corso del procedimento era intervenuta anche la Corte costituzionale, stabilendo che nei casi di omicidio in ambito familiare il giudice deve valutare la possibilità di ridurre la pena in presenza di provocazione e attenuanti generiche. L’Assise d’appello di Torino, in base a quel principio, aveva inizialmente condannato Alex alla pena minima, riconoscendogli la semi-infermità mentale. Gli avvocati Enrico Grosso e Claudio Strata hanno però impugnato la sentenza in Cassazione, dove, a luglio dello scorso anno, il procuratore generale aveva chiesto un nuovo processo, sostenendo che «la Corte d’assise d’Appello non spiega cosa ha scatenato un tale comportamento in Alex. Manca la prova genetica di un alterco tra soggetti entrambi armati, mancano gli accertamenti per ricostruire i movimenti nell’appartamento dell’omicidio, i vestiti del fratello Loris non sono stati acquisiti. Questo ci impedisce di ricostruire l’accaduto, ma non può ricadere a carico dell’imputato». Da qui l’appello bis, che si è concluso con l’assoluzione.
Alex aveva vissuto anni di terrore in un contesto familiare segnato da violenze continue: almeno duecento episodi in meno di due anni. A muovere la sua mano furono l’esasperazione e la paura per la vita propria e dei suoi cari — un caso emblematico di legittima difesa, tesi sempre sostenuta dai suoi legali. La procura generale di Torino, invece, ha continuato a parlare di omicidio volontario: contro un uomo violento, certo, ma pur sempre un omicidio. Tuttavia, per i giudici, la verità resta una sola: si è trattato di legittima difesa.
Come ha raccontato a La Stampa, Alex, oggi 24enne, ha appreso la notizia mentre era a casa con la fidanzata: «Finalmente è finita. Sono felice. La mia vita adesso può ricominciare», ha detto dopo aver ricevuto la telefonata del suo avvocato. «Sono assolto per sempre? Siete sicuri che non potranno più esserci ricorsi contro di me?», ha chiesto più volte.
L’avvocato Strata, da sempre al suo fianco, ha confermato al quotidiano torinese: «Sono felice. Alex non si meritava di arrivare fino a qui. Sono stato convinto della sua innocenza dal primo giorno. La Cassazione ci ha dato ragione per due volte e la procura generale della Cassazione ci ha sostenuto fino in fondo, cosa non da poco. Ora può cominciare a vivere». Il collega Grosso, che lo ha difeso negli ultimi due gradi di giudizio, ha aggiunto: «Finalmente mettiamo la parola fine a una vicenda dolorosa e drammatica per tutti. Qui sono vittime tutti: Giuseppe Pompa, la signora Cotoia, Alex e Loris. Ma oggi è stata fatta giustizia».


