Appartiene a un’altra era politica, a ben vedere. La riforma del Csm è un’improvvisa incursione del passato. Della stagione di Draghi e Cartabia, del governo di tutti – tranne Fratelli d’Italia – e delle mediazioni faticose.

In quel clima che ora appare irripetibile e che era orientato, seppur cautamente, alla prevalenza del garantismo, è stato disinnescato il blocca-prescrizione di Bonafede, è stata approvata l’inedita disciplina sulla presunzione d’innocenza e si è spinto almeno un po’ l’acceleratore sulla riforma della magistratura. Cioè sul dossier che ora il nuovo guardasigilli Carlo Nordio si ritrova davanti, e che la commissione da lui nominata ha risolto con una bozza di decreto attuativo piuttosto deludente. Rischia di essere tradito il punto chiave, la modifica che non a caso aveva spinto l’Anm allo sciopero: il “fascicolo di valutazione”, l’indicatore statistico sugli insuccessi processuali a cui legare scatti di carriera ed eventuali incarichi direttivi per tutti i magistrati. In più, viene mortificato fino allo sberleffo il taglio delle toghe fuori ruolo, con il tetto di 200 incarichi ridotto di pochissimo, appena 20 in meno, e con una “riserva di flessibilità” per le nomine internazionali che annulla persino quel minimo ritocco.

Come ci si arriva? Grazie a una commissione di studio preposta, da Nordio, a elaborare la bozza e formata per la stragrande maggioranza da magistrati: 18 su 28. Il resto è una ridotta rappresentanza dell’avvocatura e dell’accademia. Che annovera il presidente del Consiglio nazionale forense Francesco Greco e il numero uno del’Aiga Francesco Perchinunno.

Il primo in particolare aveva chiesto a Nordio un segnale completamente diverso sui fuori ruolo, un atto di chiarezza sulla separazione dei poteri. Ora solo un’iniziativa politica forte in Consiglio dei ministri e in Parlamento potrà correggere il gattopardismo della bozza. E qui siamo appunto al passo indietro rispetto all’unica vera conquista, in ambito giudiziario, dell’esecutivo di Draghi e Cartabia: la capacità di legiferare in forma magari non sempre efficace, ma almeno senza lasciare alla magistratura il potere di dettare le norme. Un merito del precedente governo riconosciuto da alcuni tra i più autorevoli esponenti dell’accademia, a cominciare da Giovanni Maria Flick. Ossessionato dallo spettro di un conflitto con la magistratura che finisca per sommarsi alle già tante contingenze difficili, il governo di Meloni e del ministro Nordio preferisce, sul Csm come sul decreto Antimafia, un passo indietro rispetto alla pur ambivalente e breve stagione dell’unità nazionale. Ci si fa dettare letteralmente la riforma, almeno quella del Csm e dell’ordinamento giudiziario, dai magistrati. Come in passato.

Certo, la bozza su cui chiediamo di pronunciarsi anche al responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa − uno dei protagonisti in Parlamento della stagione Cartabia − potrebbe essere corretta: è il lascito dei lavori condotti fin qui, interrotti per la pausa estiva. Ma non promette nulla di buono. E rischia di segnare una regressione proprio sotto la guida di un guardasigilli che della sfida alla magistratura autoreferenziale ha fatto la ragione del proprio impegno. Finisse così, sarebbe, per Nordio, la sconfitta più cocente che si potesse immaginare.