Sinteticità degli atti giudiziari: ci risiamo. Dopo la clamorosa decisione del giudice di pace del Tribunale di Verona, che ha compensato le spese legali per una asserita «violazione dei criteri di forma e redazione», una nuova vicenda mette in allerta l’avvocatura sui rischi a cui sembra sempre più esposto il diritto di difesa.

Questa volta la decisione arriva dal Consiglio di Stato, che ha dichiarato inammissibile un ricorso per superamento del numero massimo dei caratteri consentiti per proporre appello. Si tratta della sentenza n. 8928 dello scorso 13 ottobre, con la quale Palazzo Spada ha stabilito che il ricorso, «in presenza di motivi di appello che il collegio non è tenuto ad esaminare diviene inammissibile perché, in relazione ad una parte essenziale per la identificazione della domanda - richiesta dall’art. 44, comma 1, lett. b) c.p.a. a pena di nullità -, viene meno l’obbligo di provvedere e con esso la stessa possibilità di esame della domanda». Tradotto: il ricorso non è stato neanche preso in considerazione, perché i motivi di appello erano contenuti nelle pagine che eccedevano il limite previsto. Nel caso in esame, l’atto constava di 87 pagine, e il numero massimo di caratteri consentiti – 70mila per i ricorsi ordinari, secondo il decreto del Presidente del Consiglio di Stato del 22 dicembre 2016 – «risulta utilizzato ed esaurito a pagina 52 del ricorso», si legge nella decisione di Palazzo Spada. Che quindi applica la «sanzione prevista dal legislatore per i casi di violazione del principio di sinteticità degli atti processuali». Tutto regolare? Non proprio, secondo l’avvocatura, che rintraccia nella decisione una palese violazione dell’articolo 24 della Costituzione. Il quale tutela diritti incomprimibili e di certo non barattabili per esigenze di spazio: al centro della giustizia c’è la persona, non può esserci un numero.

Per questo il Consiglio nazionale forense, che esprime «disappunto per questa evidente lesione del diritto di difesa», ha deciso di vederci chiaro chiedendo un incontro a Via Arenula. «La richiesta di giustizia del cittadino non può essere frustrata in ragione di limiti di caratteri e pagine. Il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto si è immediatamente fatto carico del problema e ha convocato per la prossima settimana una riunione per affrontare la questione», spiega il presidente del Cnf Francesco Greco.

Per comprendere le ragioni di allarme dell’avvocatura bisogna fare un passo indietro, e tornare alla decisione del giudice di pace di Verona, che in “dichiarata” applicazione del decreto del ministro della Giustizia numero 110 dello scorso 7 agosto ha deciso di penalizzare la parte vincitrice della causa facendole pagare le spese. Il riferimento è al famigerato provvedimento sulla sinteticità degli atti giudiziari, che impone limiti dimensionali e regole per la redazione degli scritti redatti (soprattutto) dagli avvocati. Secondo i quali i paletti introdotti rappresentano un “bavaglio” alla difesa. A maggior ragione se si considera che nel caso veneto la violazione contestata non riguarda il numero di caratteri ma la loro “dimensione” e la “interlinea”, per i quali il decreto Nordio suggerisce - con la formula “preferibilmente” - uno standard che non ha carattere perentorio.

Di qui la mobilitazione del mondo forense, che aveva già ottenuto una riformulazione del decreto emanato ad agosto. Insomma, i due casi – che non sono isolati – sono sufficienti a far scattare l’allarme: «La misura è colma», dice l’Associazione italiana giovani avvocati (Aiga), che esprime «sconcerto e disappunto di fronte all’ennesima decisione che sacrifica, sull’altare della “sinteticità” e della “chiarezza”, il diritto di difesa costituzionalmente garantito non solo nella nostra Carta ma in tutti gli Stati liberali». E chiede, tramite il presidente Francesco Paolo Perchinunno, la convocazione permanente degli Stati Generali dell’Avvocatura sul tema. «In questo Paese l’esercizio del diritto di difesa viene, quotidianamente, demolito per mano di un sistema che ha trasformato le aule giudiziarie in stanze della ragioneria generale dello Stato, nelle quali, i diritti e le libertà dei cittadini sono vivisezionati attraverso il luminol dell’osservazione quantitativa», denuncia Valerio Zicaro, componente di Giunta dell’Aiga. A cui si aggiunge la vicepresidente di Aiga Maria Rita Mirone, per la quale l’avvocatura «non può più rimanere impassibile rispetto a questa degenerazione giuridica» la cui fantasia, spesso, «supera la realtà».