Sembrerebbe profilarsi un pareggio. Uno a uno tra le due città metropolitane e uno a uno tra gli opposti schieramenti della politica, con il Comune di Bari che potrebbe andare a fare compagnia a quello di Reggio Calabria, sciolto per infiltrazioni mafiose nel 2012. Non ci fossero i precedenti di Roma, Foggia e della stessa Reggio a guida Falcomatà, passate indenni dalla ghigliottina, la scommessa che ciò si verifichi avrebbe quote talmente basse da non valere la pena puntarci soldi.

Induce perplessità il possibile scioglimento per Bari – quando il ministero invia la Commissione d’accesso, di solito si verifica – come ne indusse quello di Reggio, peraltro a danno di un sindaco, Demetrio Arena, che si era insediato da pochi mesi. E come ne indussero, e ne inducono, le centinaia comminate in Italia negli ultimi tre decenni. Tutta colpa della legge 221 del 22 luglio 1991, un’insensatezza, una negazione dello Stato di diritto. Già nacque male, sulla spinta dell’orrore indotto dalla strombazzata, e falsa, decapitazione di una vittima di ’ ndrangheta, a Taurianova, nella Piana di Gioia Tauro, il venerdì santo del 1991. Ci fu un’onda d’urto terribile. E le cronache ci sguazzarono, dando per certa l’invenzione, atta a creare scalpore e maggiore indignazione – senza che il costruito ad arte tolga bestialità ed efferatezza al crimine – che la testa dell’ucciso fu tranciata con un machete, o con un coltellaccio da macellaio, lanciata per aria e presa a pistolettate al volo.

Tante le amministrazioni azzerate più volte. E le repliche in uno stesso comune già da sole basterebbero a bollare l’inadeguatezza della legge, che evidentemente nulla ripara, non funziona, necessita di modifiche sostanziali. E che sa d’incostituzionalità, difettando, nell’applicazione, il principio di dover accertare una colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio e quello di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio, a maggior ragione perché qui non c’è spazio per alcun grado di giudizio. Oltre a essere nata malaticcia, è spesso fuorviante rispetto alla realtà, lesiva dei diritti dei cittadini. E dei politici commissariati, e talvolta inquisiti, talvolta arrestati. E talvolta né arrestati e né inquisiti, in quella che è l’anomalia più incomprensibile, perché, se non c’è colpa da contestare… All’origine degli scioglimenti spesso non ci sono reati, solo la potenzialità di poterli commettere. Potenzialità peraltro basata su roba d’aria: vaghi sospetti, fantasie, pettegolezzi, sentito dire, indizi che, alla distanza, si rivelano impalpabili, fumosi, forzature, tentativi di soggiogare teorie incapricciate su una logica che non traspare perché non c’è. E tuttavia sono evanescenze, ipotesi zoppe e vaporose e teoremi astrusi che conducono a una gelida inflessibilità, che diventano elementi per strette repressive inadatte a una democrazia. Diventa giustizia sommaria, lo Stato che mostra i muscoli. Tanto per capirci, in un paese dell’Alto Ionio la motivazione principale dello scioglimento del Comune fu la partecipazione del sindaco al funerale di una vecchina con la colpa della parentela “difettosa” e che da bambino lo aveva accudito. C’è di peggio: esistenze che si sfiorano e tra le quali si fantasticano “infezioni”, con gli untori contagiosi al punto da portare a dannazione, da attirare gli strali della legge se solo si viene visti assieme a uno in odore di mafia, e tuttavia libero, se gli si ricambia il saluto, se non si riesce a sfuggire al “fatale errore” di trattenersi a chiacchierare, se si accetta un caffè al bar: tutte situazioni inevitabili quando tutti si conoscono con tutti, specialmente nei paesi piccoli, magari con un’unica piazza e un unico ritrovo.

Né è previsto un contraddittorio tra la Commissione d’accesso e l’Amministrazione comunale. Al sindaco, che pure è l’avamposto dello Stato nel territorio e meriterebbe solidarietà, non flagellazione, non è consentito confrontarsi con chi sta verificando la correttezza degli atti, quando sarebbe lui il più titolato a fornire spiegazioni in grado di aprire gli occhi chiusi o accecati dalla condanna a prescindere. Le possibilità di difesa, solo a danno già perpetrato, dopo che il ministero dell’Interno, acquisita la relazione della Commissione, notifica il decreto di scioglimento, bypassando la magistratura e le indagini.

Amministrazioni vengono sciolte anche per colpe, inadempienze e collusioni, vere o presunte, con la mafia da parte dei funzionari, e non del sindaco e dei suoi consiglieri – pare ci sia pure questo, nel caso Bari, e appare ingiusto che ne debba rispondere il primo cittadino, che non si tenga conto di come le varie “Bassanini” hanno amplificato i poteri decisionali dei responsabili dei servizi. Norme capestro hanno insomma deciso che tocchi alla politica pagarne le conseguenze, via dalla scena pubblica con il provvedimento infamante, niente processi perché niente c’è da processare, e la gogna sì, la futura incandidabilità spesso, la sofferenza sempre.

Poi, affidare la gestione di un Comune a tre Commissari prefettizi estranei al luogo, oltre a essere un onere costoso, quasi sempre comporta scarsa efficienza, scarsa presenza sul territorio, scarsa attenzione alle esigenze e alle priorità della cittadinanza, paralisi dell’economia. Perché non hanno, non possono avere, l’amore e la dedizione che ha il sindaco per il proprio paese e per la collettività. Per lo più la triade si limita all’ordinario, anche a meno. E le disfunzioni crescono. A fine mandato sono molte più le volte che restituiscono una situazione peggiore di quella ereditata, senza che debbano rispondere delle inefficienze, neppure di inadempienze palesi e più gravi di quelle che hanno comportato lo scioglimento.

È tempo di cancellare quest’assurdità. Non è tollerabile che il pur meritorio impegno di sgominare le mafie finisca per rendere legittimo che si releghino in retroguardia, fino a tacerli, i soprusi, le ingiustizie, i danni collaterali, gli incidenti di percorso su una marea di innocenti maltrattati.