I reati in materia di violenza di genere e domestica tornano ad essere un tema di discussione al Consiglio superiore della magistratura. È stata infatti richiesta questa settimana da parte dei togati di Magistratura indipendente l’apertura di una pratica dedicata ai gruppi di lavoro che presso le Procure si occupano di tali reati, con lo scopo di modificare le circolari vigenti al riguardo.

I togati di Mi, Paola D'Ovidio, Maria Luisa Mazzola, Maria Vittoria Marchianò, Bernadette Nicotra, Edoardo Cilenti, Eligio Paolini e Dario Scaletta, hanno poi chiesto al Comitato di presidenza del Csm anche la possibilità di creare una Commissione permanente per effettuare il monitoraggio delle problematiche derivanti proprio dai reati contro le vittime vulnerabili.

Le cronache dell’ultimo periodo, con efferati fatti di sangue pur in presenza di pregresse denunce da parte delle vittime, descrivono un agire in “ordine sparso” dove molto è lasciato alla sensibilità degli inquirenti. La violenza di genere e domestica, «un’emergenza sociale tragica ed inquietante», come disse anni fa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, continua purtroppo ad essere contrastata in maniera non soddisfacente.

È ormai chiaro che da un lato serve elaborare profili organizzativi degli Uffici per assicurare specializzazione, tempestività e coordinamento con le forze dell’ordine e la Rete sociale e territoriale, ma dall’altro è urgente garantire una formazione specifica per chi si occupa di questi reati. Formazione che non è solo specializzazione, dovendo puntare ad una cultura condivisa nella tutela delle vittime.

Per i magistrati, come ricordato da più parti, la formazione non può essere soltanto normativa o giurisprudenziale ma “empatica”, finalizzata dunque ad una migliore comprensione delle problematiche sollevate dalle persone offese che non vanno mai lasciate sole o abbandonate, come spesso capita, dopo la denuncia.

Una concetto ribadito in una recente intervista dal procuratore di Tivoli Francesco Menditto, che ha proposto di rendere la formazione “obbligatoria” per pg, pm e giudici. «Si porta spesso a sottovalutate le denunce delle donne ritenendo siano il frutto di una litigiosità di coppia», ha scritto ieri Fabrizio Cicchitto sulle colonne di Libero, suggerendo la creazione presso polizia e carabinieri di nuclei composti solo da personale femminile, «il più sensibile, anche emotivamente, a mobilitarsi a difesa delle donne che denunciano una situazione di pericolo», per il contrasto a tali reati.

Sul fronte magistrati, dal 2010, il Csm ha affrontato il tema incentivandone la specializzazione sia in campo civile che penale. E nel 2014 ha condotto per la prima volta un monitoraggio degli Uffici in tale ambito.

A distanza di dieci anni, come detto, continuano ad esserci situazioni fortemente disomogenee sul territorio nazionale in materia di violenza familiare. Se presso i Tribunali più grandi, quelli che hanno più sezioni civili/penali, sono previsti modelli di specializzazione che accorpano le materie in base ad aree omogenee, per esempio i delitti a danno dei soggetti deboli con quelli di femminicidio, il discorso è diverso nelle piccole realtà dove ciò non è numericamente possibile.

Dal punto di vista normativo, invece, le ultime modifiche hanno rafforzato le tutele processuali delle vittime di reati violenti con l’introduzione del Codice rosso ai fini dell’instaurazione del procedimento penale, accelerando così l’adozione di provvedimenti a tutela delle vittime.

Sono stati fatti interventi anche sugli obblighi di comunicazione alla persona offesa circa gli sviluppi del procedimento penale, soprattutto con riferimento alla messa in libertà dell’autore della violenza, e si è ampliato l’utilizzo del braccialetto elettronico. Per quanto concerne l’ordinamento penitenziario, dopo la condanna per tali fattispecie, l’accesso ai benefici penitenziari è poi subordinato ad un periodo di osservazione della personalità.

Bisogna però ricordare che grandi passi in avanti sono stati fatti negli ultimi anni. Nel 2017 fece scalpore una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza CEDU Talpis 2 marzo 2017) che aveva condannato l’Italia a risarcire una signora moldava per violenze domestiche. Una sentenza che aveva suscitato grande indignazione, mettendo in luce i ritardi legislativi del nostro Paese sulle violenze domestiche e le violenze di genere.