Non c’è niente di vero e niente di falso ne “La legge di Lidia Poët”, la serie tv firmata Netflix che rielabora in chiave moderna la storia della prima avvocata d’Italia. Ciò che balza all’orecchio, fin dal primo episodio, è proprio quella parola: “avvocata”. Un femminile professionale, per precisione grammaticale, che si pone da subito come manifesto d’intenti: non avvocato, non avvocatessa, “c’è una parola per definire una donna che indossa la toga e la useremo”, sembrano suggerire gli autori. Non per gentile concessione, ma per rispetto del dizionario. Anche se la questione, talvolta con incredibile acredine, è tra le più dibattute fuori e dentro l’Accademia. Lidia Poët, insomma, è un’avvocata. E come tale si presenta quando bussano alla sua porta nella prima scena. Roba da far esultare centinaia di professioniste che ogni giorno sono appellate come “signore” nei tribunali.

La vera Poët, però, è vissuta nell’800, e il limite che le si pone è formale prima ancora che culturale. Tra le prime donne a laurearsi in giurisprudenza all’Università di Torino con una tesi sulla condizione femminile in Italia e sul diritto di voto per le donne, Poët svolge la pratica forense per abilitarsi alla professione e supera con grande successo l’esame di procuratore legale. Nel 1883 quindi presenta richiesta di iscrizione all’Ordine, che l’accoglie con otto voti a favore e quattro contrari. Nulla lo impedisce: la richiesta di Poët è conforme alla legge. Ma ad opporsi è l’allora Procuratore Generale del Re, che decide di denunciare “l’anomalia” alla Corte d’Appello. La quale provvede a cancellarla dall’Ordine, ritenendo che quello di avvocato fosse da considerarsi un ufficio pubblico, inaccessibile alle donne per legge. «L’avvocheria è un ufficio esercibile soltanto da maschi e nel quale non devono punto immischiarsi le femmine», argomentano i giudici. Per i quali «sarebbe disdicevole e brutto veder le donne discendere nella forense palestra, agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi, accalorarsi in discussioni che facilmente trasmodano, e nelle quali anche, loro malgrado, potrebbero esser tratte oltre ai limiti che al sesso più gentile si conviene di osservare: costrette talvolta a trattare ex professo argomenti dei quali le buone regole della vita civile interdicono agli stessi uomini di fare motto alla presenza di donne oneste». Poët però non demorde, e privata del “titolo” continua a svolgere la professione nello studio legale del fratello per i 37 anni successivi alla sua cancellazione dall’Albo. È lei ad utilizzare per la prima volta la parola “avvocata”, sia in un articolo del 1883 sul Corriere della Sera, sia nelle argomentazioni utilizzate negli anni per ottenere l’abilitazione. Tutti tentativi falliti, fino alla svolta del 1919, quando l’approvazione della legge Sacchi autorizza ufficialmente le donne ad entrare nei pubblici uffici. Poët può finalmente reindossare la toga. E persino votare, nel 1946.

Questi i fatti, di cui troviamo traccia a più riprese nella serie tv disponibile dal 15 febbraio sulla piattaforma. Sia nella parole della Corte d’Appello, riportate fedelmente. Sia quando Matilda De Angelis, nei panni di Poët, si presenta per la prima volta davanti al giudice: incredulo lui, incredulo il procuratore, increduli tutti. Tutti tranne il giornalista Jacopo Barberis, interpretato da Eduardo Scarpetta, che sulla “battaglia contro i mulini a vento” della protagonista ci firma anche un articolo. Ne vien fuori una coppia alla Conan Doyle, con i due impegnati in piccoli gialli che si snocciolano un episodio dopo l’altro, nelle sei puntate confezionate da Matteo Rovere e Letizia Lamartire, produzione Groenlandia.

La Poët della fiction assomiglia più a una detective che a un avvocato, e anche se non le resta molta scelta – una volta negatole l’accesso alla professione – l’abito di Sherlock Holmes (o meglio Enola Holmes) le calza alla perfezione. La Poët di oggi è sfrontata, astuta, brillante. Con il suo “altergo” storico condivide la caparbietà, la capacità di aggirare un “no”, trasformandolo in una possibilità. Ma è più moderna di quanto ci si aspetti da una serie in costume, più libera, forse, di quanto le avrebbe concesso la Torino di fine ’800. Libera sessualmente, libera di girare per strada a notte fonda, libera di tracannare un cognac in un bar, senza la compagnia di un uomo. Certo: nella realtà e nella fiction non mancano le occhiatacce, i musi lunghi, le frasi che alludono allo scandalo (“Se ti Dio di voleva avvocato, non ti faceva donna”). Ma si ha l’impressione che questa serie serva più a noi, di quanto non sarebbe servita alla vera Poët. «L’idea è di riprendere alcuni elementi della sua storia reale per rielaborarli in chiave light procedural», spiega il regista Matteo Rovere. «La vera Poët è un personaggio fortemente resiliente che rispetto al suo tempo non ha alcuna forma di pacificazione. Abbiamo cercato di teletrasportare un carattere moderno nel passato, per far sì che i contrasti tematici venissero alla luce attraverso una sensibilità contemporanea – aggiunge -. I due personaggi sono in parallelo. Anche per sottolineare come la parità di genere sia un punto di arrivo ancora lontano».

E di fatti le obiezioni degli uomini di allora, sono simili alle obiezioni degli uomini di oggi. “Chi crederebbe mai che una donna fa l’avvocato?”, ironizza il personaggio. Che anche nella serie tv trasforma quel limite nella sua forza, e sfida l’ostinazione ottusa di chi le cuce addosso un destino per tirarne fuori un diritto che oggi sembra “natutale”. Già, oggi non siamo messi così male. Ma a Lidia Poët, alla fine, è bastato il rigore della legge per scardinare una cultura maschilista e imporsi legittimamente come professionista. Dopo di lei invece si è scoperto che anche una norma non basta. Non basta un pezzo di carta. Non basta un titolo. E per questo, forse, serve anche una serie tv, con una protagonista femminile che riguadagna spazio, per poter dire insieme a lei: “Verrà un secolo in cui queste nostre dispute sulla dignità femminile suoneranno grottesche, come oggi suonano quelle di chi pochi secoli orsono si chiedeva se gli indiani d’America avessero o non avessero un’anima immortale”.