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Ottobre 2012. Demetrio Arena, eletto sindaco della città di Reggio Calabria da 17 mesi, riceve una telefonata. Il Consiglio dei ministri ha appena sciolto la sua amministrazione per infiltrazioni mafiose. Una doccia fredda che si tramuta subito in un record: è il primo capoluogo di provincia ad incappare in questa decisione.
Ma la Calabria è il posto dei record a prescindere, specie quando si tratta di scioglimenti. Quasi tutti frutto di disordini amministrativi, più che di atti politici precisi. Con l’effetto pratico, spesso, di ridurre intere cittadine al fantasma di se stesse. Quando arrivano i funzionari della prefettura a guidare i Comuni i poteri sono limitati. Ordinaria amministrazione, questa la regola, che dunque impedisce ogni forma di progresso. E spesso questo si traduce nella morte lenta di una città, di un paese, che un giorno è al centro della movida e il giorno dopo arranca per sopravvivere.
È la dura legge degli scioglimenti, la legge del sospetto. Sospetto che non ha bisogno di riscontri, trasformandosi in una potente clava che rade al suolo ogni cosa. Ignorando le soluzioni intermedie, il contraddittorio, l’analisi approfondita. Reggio Calabria, dunque, fece storia. E la corposa relazione che spiegava le irregolarità - fatta anche di scambi di persona e sviste clamorose - racconta storie che avrebbero dovuto servire da allarme per le azioni future. E che forse non sono servite, a voler leggere la letteratura sugli scioglimenti calabresi.
Nella relazione della commissione d’accesso agli atti del Comune di Reggio Calabria c’era un soggetto, indicato come “sospetto”, dalle frequentazioni pericolose e dal passato burrascoso, uno di quelli che, stando alla lente della commissione, offrivano il braccio del terzo settore alla scalata delle ‘ndrine a Palazzo San Giorgio. Ma la fedina penale di A. V., presidente di una cooperativa che oggi non esiste più, era «immacolata». E le frequentazioni pericolose, quelle segnalate dai commissari che hanno stilato il lungo e articolato documento, altro non erano se non gli utenti del suo centro per le tossicodipendenze, un centro riconosciuto e finanziato dal ministero della Giustizia e dall’Azienda sanitaria provinciale. Una storia paradossale, che il presidente della cooperativa tentò di chiarire subito. «Sono responsabile di un centro per le tossicodipendenze – affermò subito dopo aver letto il suo nome nella relazione -, quindi che mi accompagnassi con dei tossicodipendenti era il minimo sindacale che mi si potesse chiedere. In quella relazione manca qualsiasi tipo di spiegazione del perché io andassi in giro con quei soggetti. È stata una forzatura e mi auguro solo per noi, altrimenti sarebbe pesante pensare che questo è il criterio seguito per sciogliere un’amministrazione comunale».
Nella relazione, quasi tre pagine erano dedicate ad A. V. e alle sue “amicizie”. Persone per le quali la sua cooperativa percepiva, periodicamente, delle rette direttamente dall’Asp, finalizzate proprio al pagamento del servizio di accompagnamento. «Noi possiamo essere contigui alla ‘ndrangheta esattamente come potrebbe esserlo un questore – aveva ironizzato l’allora presidente -. Non in modo diverso».
Le sue frequentazioni pericolose, inoltre, sarebbero state quelle con alcuni soci della sua cooperativa. Frequentazioni “imposte” per legge e che riguardavano tutte le cooperative di tipo B: la legge 381 del 1991, infatti, stabilisce che almeno il 30 per cento dei loro lavoratori sia costituito da persone svantaggiate. «Abbiamo seguito la legge – sottolineava –, sarebbe bastato andare a leggere il libro soci per capire di cosa si stesse parlando: a fianco ad ogni nome sospetto è riportata la dicitura “soggetti svantaggiati”, il che significa ex tossicodipendenti ed ex detenuti. C’era anche qualcuno che venne mandato da noi in affidamento per scontare gli arresti e che poi è stato estromesso per incompatibilità morale con le linee della cooperativa. È tutto riportato nei registri».
Ma perché questi approfondimenti non sono stati fatti? E le altre 230 pagine di relazione sono state scritte con lo stesso metodo? «Se questo è il criterio chissà quanto c’è di vero in uno scioglimento – aveva sottolineato qualche giorno dopo la pubblicazione della relazione -. Io voglio sperare che ci siano altre motivazioni, reali. Ma c’è molta ipocrisia sulle cooperative di tipo B. Dobbiamo continuare a lavorare o no? Possibile che devo essere segnalato e messo alla gogna quando è il tribunale a chiamarmi, pregandomi di prendere la gente gratis o di allungare la permanenza di qualcuno di altri 15 giorni? E la situazione non riguarda solo me, ma anche altre cooperative». Ed essere additati dalle stesse persone che stabiliscono le linee da seguire e pagano le rette è paradossale.
Anche sulla sua persona le indicazioni non mancavano: risultava segnalato per lesioni personali, violenza e minaccia a pubblico ufficiale, danneggiamento, violazione degli obblighi di assistenza familiare, favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e furto aggravato. «Per quanto riguarda le lesioni personali e le minacce a pubblico ufficiale – aveva sottolineato - è un fatto che risale a 22 anni, quando chiamai un medico, allora pubblico ufficiale, che venne ubriaco a casa mia ed io lo scaraventai fuori con violenza. Non ci fu denuncia di nessun tipo ma evidentemente rimane tutto, anche se ero io quello che voleva denunciarlo all’ordine dei medici. Per quanto riguarda il resto delle segnalazioni sono stato assolto da ogni accusa sempre perché il fatto non sussiste. Parlano le sentenze». Ma nemmeno quelle bastano.