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CORSI E RICORSI...
Quella cartellina, reale o metaforica che sia, sulla scrivania di Sergio Mattarella che s’intravvede nella corrispondenza di Marzio Breda dal Quirinale per il Corriere della Sera, relativa al precedente dello scioglimento anticipato delle Camere nel 1994, ad opera di Oscar Luigi Scalfaro, dev’essere un incubo per chi teme l’epilogo della legislatura. O un motivo di speranza per chi l’auspica come conclusione della odierna verifica parlamentare chiesta dal capo dello Stato respingendo la settimana scorsa le dimissioni di Mario Draghi e rinviandolo alle Camere: prima al Senato e poi a Montecitorio, come hanno poi concordato i presidenti delle due assemblee. E come non potevano non decidere dopo che Mattarella aveva indicato esplicitamente la necessità di valutare quanto era accaduto proprio al Senato con la votazione di fiducia - disertata polemicamente dai grillini - sulla conversione in legge del decreto per gli aiuti alle famiglie e alle imprese in difficoltà. Il quadro politico e istituzionale, ma più politico che istituzionale, del 1994 assomiglia a quello attuale solo per il comune stato di delegittimazione delle Camere. Per tutto il resto le situazioni sono nettamente diverse e potrebbero anche indurre Mattarella a non seguire l’esempio del suo predecessore e collega di partito, che pur in presenza di un governo non sfiduciato - quello presieduto da Carlo Azeglio Ciampi- interruppe la legislatura senza neppure ricorrere al rito delle consultazioni dei partiti e gruppi parlamentari. Scalfaro si limitò a “sentire”, come prescritto dalla Costituzione, i presidenti delle Camere: Giorgio Napolitano, che a Montecitorio aveva maturato la convinzione che lo scioglimento anticipato fosse opportuno, e Giovanni Spadolini che al Senato si era fatta un’idea diversa.
A me risultava che oltre a farsela, Spadolini avesse espressa la sua idea difforme al presidente della Repubblica senza convincerlo. Ma una volta che lo scrissi il puntigliosissimo Scalfaro me la smentì privatamente. Peccato che nel frattempo Spadolini fosse morto e non potesse confermare quello che personalmente mi aveva fatto capire.
Le Camere sciolte nel 1994, per quanto elette meno di due anni prima, erano delegittimate innanzitutto per il gran numero di inquisiti e candidati alle manette, previa autorizzazione parlamentare, per finanziamento illegale dei partiti, corruzione, concussione e quant’altro contestate soprattutto dalla Procura di Milano con l’indagine nota come “Mani pulite”. E “coscienze sporche”, aggiungevano polemicamente i pochi garantisti in servizio lamentando i metodi degli inquirenti e il senso prevalentemente unico delle loro iniziative sul piano politico. Ma erano delegittimate anche per l’intervenuto cambiamento della legge elettorale, essendo stato il sistema proporzionale praticamente demolito dal referendum del 1993. E sostituito con uno misto - per i due terzi maggioritario e un terzo ancora proporzionale- formulato da una legge di cui fu relatore a Montecitorio l’attuale presidente della Repubblica, battezzato in latino “Mattarellum” dal compianto Giovanni Sartori, Vanni per gli amici.
Per l’approvazione di una nuova legge elettorale aveva premuto a viso aperto proprio Scalfaro, indicandola come traguardo di governo a Ciampi conferendogli l’incarico di presidente del Consiglio dopo il referendum e le dimissioni del primo governo di Giuliano Amato. Lo stesso Ciampi, scomodato dalla guida della Banca d’Italia, raccontò poi onestamente in una intervista al Corriere della Sera di avere confessato al presidente della Repubblica la sua incompetenza in materia, sentendosi offrire come risposta la collaborazione degli uffici del Quirinale per supplirvi.
Pur eletto al vertice dello Stato dalle Camere uscite dalle urne solo nel 1992, sull’onda emotiva della strage di Capaci, che aveva azzerato tutte le candidature coltivate nei partiti per la successione al “picconatore” Francesco Cossiga, il nuovo presidente della Repubblica non vedeva l’ora di liberarsene: l’opposto di Mattarella, che delle Camere elette nel 2018 è stato un protettore forse sin troppo paziente, prima ancora che l’emergenza sanitaria della pandemia e quella economica e sociale collegata l’obbligassero un anno e mezzo fa ad allestire il governo eccezionalissimo di Mario Draghi, pur di non mandare gli italiani alle urne dopo il naufragio del secondo governo Conte, politicamente opposto al primo.
Queste Camere, diversamente da quelle del 1994, non sono delegittimate da vicende giudiziarie, e da cappi sventolati nelle sue aule, né da una nuova legge elettorale. Lo sono invece per la riforma, fortemente voluta dai grillini e subìta dagli alleati di turno, che ne ha tagliato un terzo e più dei seggi parlamentari, per cui deputati e senatori uscenti si dibattono come tonni nelle reti della morte, e per la dissoluzione ormai del partito originariamente “centrale”, quello appunto dei grillini. Attorno al quale si sono fatte e disfatte le maggioranze di questa legislatura, anche quella del governo - eccezionale, ripeto- di Draghi. Cui è capitato in questi giorni ciò che è mancato a tutti gli altri nella storia della Repubblica, anche a quelli storici davvero di Alcide De Gasperi, e della ricostruzione dell’Italia dopo la seconda guerra mondiale: un coro di appelli di ogni tipo a restare.
Essi hanno ricordato e ricordano un pò quelli levatesi alla fine dell’anno scorso per la conferma di Mattarella al Quirinale, alla scadenza del suo mandato.
Mattarella non ne voleva sapere, ma alla fine si rese disponibile. Forse oggi egli vorrebbe che Draghi, tra i fautori della sua rielezione, facesse lo stesso a Palazzo Chigi. Dove però non si è eletti per sette, lunghi anni, diventati quattordici per Mattarella, ma nominati, e condizionati dagli umori variabili di partiti, correnti e singoli leader, veri o presunti.