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TRIBUNALE DI MILANO PALAZZO DI GIUSTIZIA CORRIDOIO 3.10 TRIBUNALE
Il provvedimento con cui il Tribunale del Riesame di Milano ha bocciato larga parte dell’inchiesta urbanistica condotta dalla procura, e inizialmente avallata dal giudice per le indagini preliminari, è diventato qualcosa di più di un atto giudiziario: è un tassello che entra a pieno titolo nel dibattito politico sulla riforma della giustizia e, in particolare, sulla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri.
La motivazione del Riesame è stata netta: l’impianto accusatorio è fragile, segnato da «semplificazioni argomentative svilenti» e il gip, dal canto suo, ha sposato in maniera acritica la tesi della procura, dando per scontati riscontri che non esistevano. In poche righe, il Riesame ha offerto al pubblico un’immagine plastica di ciò che i sostenitori della riforma denunciano da anni: il rischio che il giudice si trasformi in un passacarte della procura, senza svolgere quel ruolo di filtro e controllo che la Costituzione gli affida.
Un concetto forse sottovalutato dalla sempre acuta Flavia Perina, che su La Stampa dà una lettura opposta della vicenda. A Milano, sostiene, pm e giudici non sono affatto contigui: si confrontano duramente, a volte si scontrano, e non mancano casi clamorosi in cui si sono apertamente delegittimati. Ne emerge una divisione netta tra pm e giudici, squadra, quest’ultima, di cui però fa parte anche il gip ritenuto dal Riesame appiattito. La tesi di chi si oppone alla separazione, dunque, è che le carriere, nei fatti, siano già distinte, e che il sistema funzioni benissimo senza modifiche, prova ne è il caso Urbanistica.
In effetti, il capoluogo lombardo è da tempo un laboratorio di conflitti interni alla magistratura. Lì è nata Mani Pulite, stagione che ha segnato una frattura tra magistratura e politica e che ancora oggi influenza il dibattito pubblico. Lì, negli anni più recenti, si sono registrati alcuni dei contrasti più duri tra procura e giudici. Il caso più noto - o meglio, più pesante - è forse quello del processo Eni-Nigeria, quando l’allora procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il sostituto Sergio Spadaro tentarono, secondo le parole pronunciato dal collega Paolo Storari davanti al Csm, di «togliere di mezzo un presidente di collegio» servendosi delle dichiarazioni di Piero Amara. Un episodio che, più di altri, mise in luce la frattura interna e il livello di conflittualità.
Più vicino nel tempo, i pm milanesi hanno accusato alcuni giudici di pregiudizi, hanno chiesto la loro astensione con parole dure, hanno segnalato rapporti considerati “anomali” con le difese degli indagati. Denunce che non hanno avuto esito, ma che hanno contribuito a consolidare l’immagine di una magistratura spaccata, con due corpi che si guardano in cagnesco. È questo clima a rendere Milano un caso particolare, un’avanguardia – positiva o negativa che sia – in cui la separazione tra giudici e pubblici ministeri è già una realtà culturale, prima ancora che giuridica.
Al di fuori di Milano, però, il quadro è diverso. In gran parte d’Italia, la prossimità tra gip e procura resta molto forte. Sicuramente nella percezione esterna. Spesso i giudici per le indagini preliminari, anche per ragioni di carico di lavoro e di prassi consolidata, tendono ad allinearsi alle richieste dei pm, specie nella fase delle misure cautelari. E qui si annida il cuore della questione: non basta che in un distretto anomalo come Milano si manifesti un conflitto aperto; occorre garantire ovunque, e per legge, un’indipendenza effettiva tra chi indaga e chi giudica. In Parlamento, la riforma è tornata al centro dell’agenda con il disegno di legge costituzionale promosso dal ministro Carlo Nordio. La maggioranza sostiene che sia l’unico modo per riequilibrare il sistema e dare più garanzie agli imputati. L’opposizione è divisa: una parte vede il rischio di indebolire la magistratura, un’altra condivide la necessità di una separazione netta ma chiede che sia accompagnata da riforme più ampie.
La vicenda Urbanistica offre dunque un doppio insegnamento. Da un lato, dimostra che i giudici sono perfettamente in grado di smontare un’inchiesta quando la ritengono fragile, senza farsi condizionare da logiche di appartenenza. Dall’altro, però, lo stesso Riesame segnala come il gip si sia “appiattito” sulle tesi dell’accusa, confermando quel rischio di contiguità che i sostenitori della riforma vogliono scongiurare. Il risultato è un paradosso: la stessa decisione può essere letta come prova a favore e come prova contro la separazione delle carriere.
Alla fine, la questione non può essere ridotta a uno slogan. La separazione delle carriere non è né la panacea né il male assoluto. È un tema complesso che tocca equilibri costituzionali, rapporti tra poteri, garanzie per i cittadini. Forse il vero nodo non è decidere se separare o meno, ma come farlo. Quali contrappesi introdurre, quali garanzie offrire, quali modelli istituzionali adottare. Milano, con le sue anomalie, mostra che comunque il problema esiste. E le soluzioni devono guardare all’intero sistema. La sfida, insomma, è culturale prima che normativa: come evitare che pm e giudici si condizionino a vicenda, senza rinunciare alle garanzie che l’unità della magistratura ha offerto finora.