Un coro di voci stonate condanna una scelta legislativa di piccolo formato ma di grande spessore garantistico. Con un tratto di penna sulla coda di una norma del codice di procedura penale, la Camera in prima lettura ha introdotto il divieto di pubblicare integralmente o per riassunto il provvedimento del giudice delle indagini preliminari che applica la misura cautelare della custodia in carcere o degli arresti domiciliari nei confronti della persona indagata.

Il furore populista dei Cinque stelle ha lanciato subito un allarme, parlando di legge bavaglio, senza gettare nemmeno uno sguardo alla norma costituzionale che sancisce la presunzione di innocenza e ignorando l’impegno del diritto europeo ad evitare che, prima della sentenza di merito, l’imputato sia avvolto nella trappola anche solo linguistica che racchiude un giudizio anticipato di colpevolezza. I sostenitori del primato assoluto del diritto di cronaca non si accorgono di affondare nelle sabbie mobili di un triplice errore.

In primo luogo, è la struttura della ordinanza cautelare a svelarne il formidabile impatto colpevolista. Il giudice deve motivare l’applicazione della custodia in carcere passando in rassegna le prove e concludendo per la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza. E’ questa densità nella analisi e nella valutazione del fatto contestato a rendere l’ordinanza un documento fortemente apparentato, sul piano logico, alla sentenza di condanna, da cui si distingue sotto il profilo giuridico del suo carattere provvisorio e per la unilateralità delle fonti di convincimento che altro non sono se non i risultati investigativi del pubblico ministero.

Evidente, quindi, che il provvedimento restrittivo della libertà personale è un macigno che si abbatte sulla presunzione di innocenza travolgendola in modo rovinoso.

Non va poi dimenticato, come fanno invece i supporter della gogna mediatica, che il pesante pregiudizio generato dalla diffusione dell’ordinanza era già stato avvertito dal legislatore del 1988 che aveva infatti vietato al pubblico ministero di far conoscere al tribunale o alla corte d’assise la misura restrittiva già applicata nelle indagini proprio per evitare un condizionamento valutativo da parte degli organi investiti della funzione giurisdizionale. Come è noto, questo divieto è tuttora vigente e fa apparire viziato il nostro sistema processuale nella parte in cui consente di far conoscere il giudizio cautelare di colpevolezza mentre vieta a chi deve sciogliere l’alternativa tra assoluzione e condanna di usare come fonte probatoria una ordinanza cautelare già penetrata nella opinione pubblica. Vi è infine una terza ragione che rende doveroso il divieto di pubblicare un atto di micidiale portata colpevolista. L’Europa ci ha invitati ad attuare nel nostro processo un

catalogo di precisi imperativi che impongono una rigorosa pulizia linguistica degli atti giudiziari, in modo da evitare che da essi scaturisca un giudizio anticipato di colpevolezza. Come si può dunque pensare che riesca a salvarsi dalla scure della giustizia europea la pubblicabilità delle misure restrittive che è il mostruoso emblema di un edificio colpevolista eretto prima ancora che si aprano le porte del giudizio davanti al tribunale o alla corte di assise? E’ un corridoio che porta all’esterno del processo un solo messaggio di cui beneficia il pubblico ministero. Alle procure serve avere una ribalta su cui presentare l’imputato come individuo da condannare perché raggiunto da un quadro probatorio che ne conferma la responsabilità.

A questo punto, riflettere su un caso giudiziario non troppo risalente e ricco di spunti significativi può servire ad aprire gli occhi ai più fedeli adoratori del credo giustizialista. Nel corso di indagini preliminari relative ad una ipotesi di corruzione internazionale nella fornitura di tecnologia della difesa alla Repubblica dell’India, è stata emessa dal giudice una ordinanza cautelare di custodia in carcere nei confronti del capo di una azienda pubblica. Il provvedimento, analitico e pieno di richiami testuali alle fonti di prova raccolte nelle investigazioni, era racchiuso in un documento di qualche centinaio di pagine.

Dopo l’esecuzione della misura, qualcuno pensò di far circolare l’atto sulla rete informatica internazionale. E da qui una conseguenza imprevedibile: nel giro di poche settimane, sbarcarono in Italia numerosi giornalisti dei più diversi Paesi.

Tutti portavano in mano una copia dell’ordinanza. Parlando con alcuni di loro, mi accorsi che erano tutti convinti di avere letto una sentenza di condanna emessa a conclusione di un giudizio di merito celebrato davanti ad un organo giurisdizionale. La corposità del provvedimento e la sua capacità di offrire l’analisi delle prove li avevano persuasi di trovarsi di fronte ad un autentico verdetto di condanna. Devo aggiungere che, a conclusione del processo penale, l’imputato, vittima della pseudocondanna a diffusione mondiale, è stato assolto con sentenza definitiva perché il fatto non sussiste.

Chi ancora si batte oggi per tenere in vita con la maschera di ossigeno la pubblicabilità dell’ordinanza cautelare emessa nelle indagini preliminari dimostra di ragionare come se la nostra giustizia penale fosse relegata in un’isola infelice dove la meta primaria è lo spettacolo della colpevolezza.