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La prima volta ci provò nel 1984 Loris Fortuna, deputato socialista e “papà” della legge sul divorzio, che si mise in testa di restituire dignità al malato con una proposta sul fine vita. Il progetto non andò mai in porto: naufragò appena un anno dopo con la sua morte. E da allora le cose non sono andate meglio.
Negli ultimi 40 anni ogni tentativo di disciplinare l’eutanasia e il suicidio assistito si è impelagato nel dibattito politico senza mai superare la prova del Parlamento. Nonostante i ripetuti richiami della Corte Costituzionale e la miriade di proposte, tra disegni di legge e referendum, avanzate periodicamente. Solo nell’ultima legislatura se ne contano quasi dieci, tra cui il ddl a prima firma Alfredo Bazoli, attualmente “sepolto” a Palazzo Madama. La proposta del capogruppo Pd in commissione Giustizia, che mira a normare il suicidio assistito riprendendo integralmente il testo unificato approvato in prima lettura a Montecitorio nella passata legislatura, ha raccolto le firme di oltre un terzo dei senatori. E sarebbe dovuta arrivare il Aula dopo la pausa estiva, il 17 settembre, in virtù dell’accordo raggiunto tra le opposizioni. Che hanno “spinto” la calendarizzazione sfruttando l’articolo 53 del regolamento del Senato («I disegni di legge, gli atti di indirizzo e gli atti di sindacato ispettivo sottoscritti da almeno un terzo dei senatori sono inseriti di diritto nel programma dei lavori del calendario»).
Anche questa volta, le cose sono andate diversamente. La maggioranza ha studiato una contromossa utile ad allungare i tempi con una valanga di audizioni che hanno riportato il ddl nelle commissioni Giustizia e Affari sociali e Sanità di Palazzo Madama: il ddl Bazoli resta dunque in calendario, ma non la dicitura “ove conclusi i lavori in commissione”. Che sono ancora in alto mare. Al punto che i firmatari del disegno di legge (il n. 104, “Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita”), dopo tre settimane hanno indirizzato una lettera ai presidenti delle due commissioni per denunciare l’atteggiamento «platealmente (e paradossalmente) ostruzionistico della maggioranza» e il «grave ritardo» nell’esame del testo, il cui iter si annuncia lungo e in salita.
Il testo prevede il diritto all’obiezione di coscienza solo all’esercente la professione sanitaria e ricalca le indicazioni contenute nella storica sentenza 242 del 2019 sul caso Fabo/Cappato, con la quale la Corte costituzionale aveva in parte legalizzato la pratica del suicidio assistito stabilendo quattro requisiti di accesso. Il più delicato riguarda il nodo dei “trattamenti di sostegno vitale”, sulla quale la Consulta è tornata a pronunciarsi lo scorso luglio. Gli altri tre prevedono che la richiesta arrivi da un malato affetto da una patologia irreversibile, che sia capace di autodeterminarsi e che reputi le proprie sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili.
Quattro requisiti in presenza dei quali la Consulta esclude la punibilità di chi fornisce l’aiuto alla morte volontaria, prevista dall’articolo 580 del codice penale. Quattro condizioni che rispondevano alla situazione specifica di Fabiano Antoniani, sul cui caso la Corte Costituzionale si era pronunciata, ma che rischiano di escludere una platea di malati terminali affetti da patologie differenti. Come i pazienti oncologici, che spesso non hanno bisogno di un “macchinario” per restare in vita, ma necessitano di un’assistenza costante.
È il caso di Sibilla Barbieri, morta in Svizzera nel 2023 dopo il no della Asl di Roma. O di Massimiliano, malato di sclerosi multipla morto nel 2022 in una clinica, lontano da casa. Proprio la sua vicenda, una delle tante che ha portato la battaglia sulla morte volontaria nei tribunali, è al centro dell’ultima pronuncia della Consulta, che con la sentenza 135 depositata il 18 luglio ha chiarito cosa bisogna intendere per “sostegno vitale”: non necessariamente un “macchinario”, ma un trattamento sanitario da cui dipende la vita del paziente. Una decisione che allarga il “campo” dei malati che potranno intraprendere un percorso di fine vita, limitando la discrezionalità dei singoli tribunali. E che richiama il servizio sanitario e il Parlamento a rispettare le regole, o a legiferare, nel secondo caso, dopo il monito già espresso nel 2019 e caduto nel vuoto. Da allora, infatti, la politica non è mai riuscita a trovare una sintesi.
Dopo la legge sul testamento biologico, la 2019 del 2017, che resta nei fatti una norma “fantasma” (perché pressocché sconosciuta), il tentativo più “audace” risale al 2022: il referendum sull’eutanasia legale aveva raccolto oltre un milione di firme, ma è stato bocciato dalla Consulta. Qualcosa si muove anche sul fronte delle Regioni, con le proposte promosse dall’Associazione Luca Coscioni. Il primo tentativo guidato in Veneto dal governatore Luca Zaia si è concluso con un flop. Ma il presidente leghista non è l’unico “eretico”, a destra, a sostenere il diritto all’autodeterminazione nelle scelte di fine vita. Le opposizioni contano di ottenere qualche voto tra le file di Forza Italia, e persino nel Carroccio il segretario Matteo Salvini avrebbe aperto alla possibilità di lasciare libertà di coscienza ai suoi.
Un tiepido segnale quest’estate è arrivato anche dalla Chiesa con le parole di monsignor Vincenzo Paglia, che nel Piccolo lessico del fine vita apre a uno «spazio per la ricerca di mediazioni sul piano legislativo». Il rischio, però, è che i ddl sul tavolo siano tutti già “vecchi”. E che il diritto a morire resti ancora nelle mani dei giudici.