Non tutti i malati terminali sono uguali. Molto dipende dalle condizioni che li tengono in vita, ma anche dalla Regione in cui si trovano e dai mezzi di cui dispongono per scegliere come morire. Sibilla Barbieri li aveva, quei mezzi: diecimila euro per raggiungere la Svizzera e autosomministrarsi il farmaco letale in una clinica. Anche se avrebbe preferito morire a casa sua, in Italia. Ciò che la rendeva uguale a tutti gli altri malati è il diritto a stabilire quando la sofferenza vissuta sia ormai intollerabile. Per Sibilla lo era.

Ciò che la distingueva, invece, è il modo in cui gli altri hanno giudicato quella stessa condizione fisica e psicologica: “per quanto attiene le sofferenze fisiche”, scrive la Commissione Aziendale istituita appositamente dalla Asl di Roma, “è di tutta evidenza che le condizioni attuali non sono coerenti con sofferenze fisiche intollerabili”. La stessa commissione ritiene “di non poter affermare di aver potuto operare una verifica positiva circa la sussistenza di sofferenze psichiche intollerabili”.

Diverso il parere del comitato etico competente nel Lazio, il quale ritiene che il vissuto di sofferenza sia ampiamente documentato, e ricorda che la sofferenza “nulla ha a che vedere con il dolore”. Ma c’è di più. Perché il comitato ritiene anche che “nel caso di specie si possa configurare per la paziente una condizione di dipendenza dai farmaci che sebbene non necessari per il sostegno vitale sono utili per assicurarle una accettabile qualità di vita”.

Il parere è solo “consultivo”, e risponde alla seguente domanda: la persona è tenuta in vita con mezzi di sostegno vitale? Ovvero una delle condizioni previste dalla sentenza 242 della Corte Costituzionale (la cosiddetta Antonioni/Cappato, sul caso Dj Fabo), con la quale i giudici delle leggi hanno in parte legalizzato l’accesso al suicidio assistito, quando sussistano determinate condizioni di salute: che la persona malata sia affetta da una patologia irreversibile, che sia capace di autodeterminarsi, che reputi intollerabili le sofferenze fisiche o psicologiche che la malattia determina, e infine, che sia dipendente da trattamenti di sostegno vitale. Quattro requisiti, in presenza dei quali la Consulta esclude la punibilità di chi fornisce l’aiuto alla morte volontaria, prevista dall’articolo 580 del codice penale.

Secondo la Asl, Sibilla Barbieri ne aveva solo due su quattro, perché non soffriva abbastanza e non era un macchinario a tenerla in vita - anche se «poi le cose cambiano», ha spiegato lei stessa respirando attraverso un tubicino. Il comitato etico offriva una lettura secondo la quale per sostegno vitale non debba intendersi esclusivamente la dipendenza fisica da uno strumento o un macchinario (ventilazione, idratazione o nutrizione artificiale, e così via).

Ma l’azienda sanitaria, contro la quale la famiglia ha presentato due esposti, non vi ha aderito. E così l’attrice e regista romana di 58 anni, malata oncologica da dieci anni, ha deciso di andare in Svizzera, dove è morta il 31 ottobre. L’hanno accompagnata suo figlio Vittorio Parpaglioni e Marco Perduca dell’Associazione Luca Coscioni, che poco dopo si sono autodenunciati alla questura di Roma insieme a Marco Cappato. Rischiano fino a 12 anni di carcere, sempre che un giudice non decida che l’aiuto fornito fosse lecito.

In mancanza di una legge che regoli il fine vita, l’esito di questo caso e di ogni altro dipende dalla lettura che ogni tribunale fa della sentenza 242. Il destino di Sibilla e di molti altri dipende sostanzialmente dall’interpretazione di cosa sia un trattamento di sostegno vitale, inteso in senso più ampio o più restrittivo. A condividere la sua sorte sono i pazienti oncologici che spesso hanno bisogno di molte cose per vivere - una terapia, un farmaco, un’assistenza costante - ma non di un macchinario al quale staccare la spina. L’immagine cui spesso si ricorre è evocativa, ma di certo non esaurisce le necessità di cui un malato ha bisogno per sopravvivere. O per vivere con la dignità che pretende.

Massimiliano, per esempio, dipendeva completamente dagli altri: viveva in Toscana, era malato di sclerosi multipla e le sue condizioni di vita gli erano divenute insopportabili. Ma siccome non aveva la possibilità di fare diversamente, ha scelto di morire in Svizzera, accedendo al suicidio assistito. Elena aveva ricevuto una diagnosi di microcitoma polmonare, con un’aspettativa di vita breve e dolorosa. Prima di lasciare il Veneto, per morire all’estero, ha spiegato: «Sono sempre stata convinta che ogni persona debba decidere sulla propria vita e debba farlo anche sulla propria fine, senza costrizioni, senza imposizioni, liberamente, e credo di averlo fatto, dopo averci pensato parecchio, mettendo anche in atto convinzioni che avevo anche prima della malattia. Avrei sicuramente preferito finire la mia vita nel mio letto, nella mia casa, tenendo la mano di mia figlia e la mano di mio marito. Purtroppo questo non è stato possibile e, quindi, ho dovuto venire qui da sola».

Paola, 89 anni, ha lasciato la sua casa di Bologna per porre fine alla sofferenza causata da una malattia irreversibile, il morbo di Parkinson, che le impediva di muoversi e parlare. Ha ottenuto la morte volontaria assistita in Svizzera. Romano aveva 82 anni, era affetto da una forma di Parkinsonismo atipico che lo costringeva a letto. Ex giornalista e pubblicitario, non riusciva più a leggere o scrivere. Si è rivolto a Marco Cappato per evitare che i suoi familiari subissero conseguenze legali. Dalla Lombardia è arrivato in Svizzera.

Come tutti gli altri non era tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, e come tutti gli altri ha dovuto sostenere il viaggio. Che in Italia è reso possibile dai “disobbedienti civili” dell’Associazione Soccorso Civile, che gestiscono la trasferta e ne affrontano le conseguenze legali. Diverso è il caso di chi “soddisfa” i requisiti della Consulta e ha ottenuto il via libera al suicidio assistito, come Federico Carboni, primo in Italia. Altri aspettano che le loro condizioni siano verificate, secondo tempi e procedure indefinite e variabili. Dipende dalla Asl di competenza, e anche dalla volontà della Regione di dotarsi di una legge propria. Come il Veneto, che ora si muove in questa direzione. Mentre dalle procure e dai tribunali emergono orientamenti che tendono sempre più ad allargare l’interpretazione dei criteri stabiliti dalla Consulta.

Il legislatore? Sappiamo che il monito della Consulta è caduto nel vuoto. E sappiamo anche che l’ultimo tentativo di approvare un testo, nella scorsa legislatura, è naufragato dopo il sì alla Camera. Il referendum sull’eutanasia legale promosso nel 2022, che aveva raccolto oltre un milione di firme, è stato bocciato dalla Consulta. C’è un diritto alla vita che va costituzionalmente tutelato - ragionano i giudici. Ma c’è un diritto, quando si ha il diritto, a non essere discriminati sulla base di quanto appare terribile la propria malattia?