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Sono passati 50 anni - troppi, diranno forse i magistrati tentati dallo sciopero contro la prova psicoattitudinale di sostanziale avvio della carriera, ma comunque senza modifiche intervenute nel frattempo nella parte della Costituzione che li riguarda - da un discorso di Giovanni Leone del 28 giugno 1974 in veste di presidente della Repubblica e del Consiglio superiore della magistratura, che torna di attualità in questi giorni. Di attualità e, direi, anche di monito, come un precedente intervento, nella stessa sede, di Giuseppe Saragat nel 1967. Entrambi contro lo sciopero delle toghe. Saragat definendo «giuridicamente inammissibile uno sciopero dei magistrati», poteva forse essere considerato un uomo troppo politico e poco attrezzato in materia giuridica per essere considerato, anche se a torto sul piano istituzionale, all’altezza di un’affermazione, o negazione, così perentoria. Ma Leone, un professore universitario alla cui scuola si erano formate generazioni di studenti, un avvocato altrettanto prestigioso, già presidente della Camera e due volte presidente del Consiglio, non poteva essere scambiato per un mezzo incompetente. E infatti non lo fu, guadagnandosi il mese dopo su Panorama gli apprezzamenti e ringraziamenti di un filosofo come Guido Calogero. Che proprio rifacendosi ai concetti di Leone, e prima di Saragat, scrisse: «Qui è in gioco quello stesso “senso dello Stato” di cui stranamente appaiono privi quei magistrati che pensano di poter fruire del diritto di sciopero senza alcuna distinzione rispetto a qualsiasi altro membro della classe lavoratrice. Ma allora che succederà se, in questo quadro, sciopereranno i giudici della Corte di Cassazione? Potranno scioperare, per analogia, anche quelli della Corte costituzionale? Perché allora non anche il presidente della Repubblica?». Che, peraltro, nella persona proprio di Leone, avrebbe avuto di che scioperare forse nel 1978, quattro anni dopo, quando fu costretto alle dimissioni
anticipate in una vicenda appena rievocata sul Corriere della Sera da Walter Veltroni con una partecipazione purtroppo macchiata da qualche amnesia sul ruolo avuto dal suo Pci, e soprattutto sui motivi, all’indomani di un delitto che l’allora capo dello Stato aveva cercato in ogni modo - persino colpevolmente secondo l’opposizione comunista? - di evitare. Mi riferisco naturalmente all’assassinio di Aldo Moro dopo il sequestro, fra il sangue della scorta sterminata a poca distanza da casa, e 55 giorni di prigionia. «Di fronte ad una prospettata astensione dal lavoro dei magistrati», disse Leone al Consiglio Superiore, «non posso che richiamare - nella mia duplice responsabilità di presidente di questo Consiglio e di custode della Costituzione e rappresentante dell’unità nazionale - le parole di precisa e recisa opposizione pronunciate in questo consesso dal predecessore Giuseppe Saragat». «E appunto come custode della Costituzione e presidente di questo consesso, il mio predecessore, richiamandosi ai principi affermati dalla Corte costituzionale e a un ordine del giorno dello stesso Consiglio superiore della magistratura del 20 dicembre 1963, confermato poi il 21 febbraio 1967, espresse la fiducia – continuò e spiegò Leone- che i magistrati si sarebbero astenuti da ogni manifestazione non consona con la posizione costituzionale e con il prestigio della magistratura» . E ancora, sempre Leone al Consiglio superiore del 28 gennaio 1974: «L’affermazione che la Costituzione, “in considerazione del carattere essenziale delle funzioni esercitate dai magistrati, investiti di funzione sovrana, assicura agli stessi magistrati speciali guarentigie e uno status particolarissimo e che a queste guarentigie e a questo status non possono non corrispondere speciali responsabilità, obblighi e doveri, tra i quali quelli di assicurare la continuità di una funzione essenziale, sovrana, insuscettibile di interruzione, resta un punto fermo che è doveroso ribadire”». E gli scioperi ugualmente sopravvenuti dei magistrati? Tutti contro quel modo ancora valido, a Costituzione invariata, di vedere le cose, di sentire le istituzioni e di rispettarle.