«Si ha quasi l’impressione che si voglia nascondere qualcosa. E questo è devastante, anche per la credibilità del Parlamento europeo, per la credibilità delle istituzioni europee, in un momento in cui, come per fortuna molti di noi credono, l’Unione europea è essenziale per i Paesi che ne fanno parte e per il processo di integrazione, che deve andare avanti». È tranchant il giudizio di Franco Roberti, ex procuratore capo della Direzione nazionale antimafia ed eurodeputato uscente del Pd, sul Qatargate.

Un vero e proprio assalto all’istituzione europea, non solo da parte della procura, ma anche da parte di molti membri del Parlamento, che hanno preso le distanze in fretta e furia dalle persone coinvolte senza andare a fondo alla questione. Peggio: evitando di affrontarla, tanto da rispondere picche all’ex vicepresidente Eva Kaili, che aveva chiesto di valutare la possibile violazione della sua immunità. Anche le sue interrogazioni sul punto, d’altronde, sono rimaste senza risposta, così come l’appello lanciato da Giuliano Pisapia, vicepresidente della Commissione Affari costituzionali e membro del gruppo S&D, che proprio dalle colonne del Dubbio aveva parlato di una brutale aggressione ai danni del Parlamento europeo, dopo la pubblicazione della notizia di agenti in borghese infiltrati nelle sedute delle Commissioni parlamentari per spiare il comportamento dei deputati.

A distanza di un anno e mezzo dagli arresti, l’indagine sembra perdere pezzi. E la procura belga ha tentato di far calare il silenzio sulla vicenda: per mantenere un “clima sereno”, ha scritto imponendo il bavaglio agli indagati e perfino ai loro difensori, pena l’arresto. Quel bavaglio è stato già dichiarato illegale dai giudici del Belgio. Ed allora ecco un’altra carta da giocare: silenziare il processo. L’ultima novità, infatti, riguarda la pubblicità delle udienze: mentre Kaili, Francesco Giorgi, Niccolò Figà-Talamanca e Marc Tarabella hanno chiesto di aprire le porte al pubblico, anche nel tentativo di fare emergere tutte le violazioni di legge più volte denunciate in questi mesi, la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola e la procura si sono opposti, chiedendo un processo a porte chiuse.

Ma perché, dopo mesi e mesi di atti sulla stampa e interviste agli inquirenti, proprio il processo dovrebbe diventare un fatto privato? La scelta sembra confermare che l’inchiesta è tutt’altro che solida. Ed è costellata da fatti che definire stranezze è un eufemismo, a partire dal conflitto di interessi del giudice istruttore Michel Claise, che ha lasciato le indagini dopo che le difese hanno fatto venir fuori il legame d’affari tra il figlio del magistrato e quello di Maria Arena, l’eurodeputata rimasta per mesi fuori dalle indagini, nonostante il suo nome fosse spuntato più volte negli atti. E una volta perquisita la casa di Arena, anche lì sono stati trovati molti soldi in contanti. Ma se per Kaili sono scattate le manette, lo stesso non è stato - fortunatamente - per la parlamentare belga, la cui immunità è stata tutelata.

Un metodo d’indagine che fa impallidire i magistrati italiani, dice Roberti, convinto che la cultura della prova debba prevalere su tutto. «Quando parliamo di cultura della prova, di cosa parliamo? Prima ancora che della valutazione, parliamo della trasparenza e delle garanzie, delle procedure acquisitive della prova - sottolinea -. Quanto successo col Qatargate è la negazione di questa cultura, in particolare della procedura acquisitiva della prova. Ci sono tutti gli estremi per dire che le cose non sono andate bene». Un giudizio netto, duro, di fronte a fatti distanti anni luce dallo Stato di diritto.

Sono tantissimi gli atti di cui le difese sono state tenute all’oscuro, senza contare quanto dichiarato dall’ispettore capo dell’inchiesta, che parlando Giorgi (che ha registrato tutto) ha ammesso che gli inquirenti non crederebbero ad una parola di Pier Antonio Panzeri, il vertice della presunta organizzazione dedita alla corruzione internazionale in seno all’Europarlamento, nonché il “pentito” che ha fatto finire in carcere, con le sue dichiarazioni, molti coindagati, ma la cui confessione, stando a quanto sostenuto dalle difese, sarebbe stata «estorta» in cambio del rilascio di moglie e figlia. Tutto messo nero su bianco, ma nemmeno questo è bastato per invertire la rotta e garantire trasparenza.

«Proprio perché si trattava di accuse gravissime - prosegue Roberti -, che potevano far pensare e ancora farebbero pensare a un’area diffusa di corruzione nel Parlamento europeo, era necessario il massimo delle garanzie per gli indagati e per le indagini, nonché della trasparenza, anche nella comunicazione dei risultati delle indagini. Tutto ciò è mancato completamente e questa è una cosa di una gravità eccezionale, perché denota la scarsa attenzione della magistratura belga e della Polizia belga alle garanzie. Serviva la massima trasparenza e la massima completezza dell'informazione. Tutto ciò non è avvenuto e continua a non avvenire, con la complicità anche dei responsabili delle istituzioni europee che non pretendono, come noi abbiamo chiesto più volte, il massimo di informazione, di conoscenza di questo fenomeno. Con questo silenzio che cosa si vuole coprire? Che cosa si vuole nascondere? Al di là dei primi atti d’indagine, dei soldi che sono stati trovati, delle confessioni più o meno concordate e più o meno vere o non vere di Panzeri, noi non sappiamo niente. La magistratura italiana inorridisce di fronte a questo spettacolo di reticenza e di silenzio e di coperture di un’indagine così importante».

Dal canto suo, Claise continua a sostenere la bontà dell’inchiesta. Anche senza indossare più la toga, che ha lasciato andando in pensione, lanciandosi in politica: l’ex magistrato è infatti candidato alle elezioni belghe con il partito centrista DéFi, col quale spera di poter creare una procura finanziaria indipendente. Ma il Qatargate sembra tormentarlo ancora.

Non solo per le minacce che, ha denunciato, ha ricevuto per questa clamorosa inchiesta, ma anche per le accuse mosse dagli indagati e dai critici, nei cui confronti minaccia querele. Il suo ultimo intervento sul punto è stato nel podcast “Untold” del Financial Times, che ha provato ad ottenere un suo commento nella puntata che ospitava anche Kaili. «Non voglio essere nello stesso programma di Eva, perché Eva è una bugiarda», ha commentato.

Ma poi, a microfoni spenti, ha parlato per 45 minuti con la giornalista Laura Dubois, che ha provato a chiedergli se ci saranno ulteriori sorprese. «Posso prometterti che dopo la primavera arriverà l’estate», ha detto laconico. Cosa voglia dire non è dato sapere. Ma è certo che non ha voluto spendere una parola su quello che, secondo Pisapia, è stato un caso di «autentico dossieraggio». «Il “Qatargate” e l’attività condotta dalla polizia e dai servizi belgi in occasione delle indagini - aveva evidenziato - altro non sono stati che un insieme di violazioni dei principi fondanti del diritto e dei diritti individuali e collettivi».