Un po’ è il primo maggio che c’è e non lo si può proprio ignorare. Un po’ è la sferzata del capo dello Stato, che è stata decisa e chiara. Sta di fatto che la premier ha deciso di anticipare le critiche annunciando non meglio precisati interventi in materia di sicurezza sul lavoro. Molti si aspettavano un decreto partorito già dal cdm riunitosi ieri ma in realtà decretare non sarebbe stato possibile. Le misure promesse al momento non esistono.

Quel che il governo ha fatto, lavorando di corsa negli ultimi due giorni, è reperire ulteriori fondi: altri 600 milioni da aggiungere ai 600 già stanziati per prevenire gli incidenti sul lavoro. Cioè quella strage continua che in media miete due vittime al giorno.

L’annuncio lo dà Meloni stessa in un video che mira a «celebrare il primo maggio con i fatti» ma per la verità è in buona parte dedicato all’elogio del suo governo. «L’Italia è sempre più una Repubblica fondata sul lavoro» , s’infiamma Meloni, poi snocciola dati. L’occupazione ai massimi storici, il picco di quella femminile, la disoccupazione in picchiata. I dati reali sin qui la confortano. Ma la premier è trionfalista anche sul punto dolente denunciato da Mattarella e citato persino da Maurizio Lupi come il principale problema del lavoro insieme alla sicurezza: i salari.

La tendenza è invertita. Il potere d’acquisto dei salari in Italia sale mentre nel resto d’Europa scende. Punto. Come se il fatto che i salari italiani siano i più bassi d’Europa o che 9 milioni di persone oscillino sul confine della povertà assoluta pur essendo occupate potesse essere liquidato così.

Il problema di Meloni è chiaro: non ha alcuna intenzione di cedere sul salario minimo, cavallo di battaglia dell’opposizione che metterà oggi la questione al centro di ogni mobilitazione, anche più della campagna referendaria contro il Jobs Act. Quella, per il Nazareno, continua infatti a presentare un versante increscioso: si tratta pur sempre di un referendum contro una legge varata da un premier che allora era anche segretario appunto del Pd e votata dal medesimo Pd che oggi in maggioranza la combatte. Ma per negare il salario minimo senza passare per affamatrice la premier può solo dire che il problema è già in via di risoluzione, dunque che bisogno c’è di adoperare altri strumenti? Qui però la realtà non la conforta affatto. Casomai l’opposto.

Il solo grosso problema del tutto irrisolto per Meloni è la sicurezza sul lavoro, quella per cui «non basta il cordoglio». Non che il governo non abbia sempre «messo al centro» della sua attività il problema,

ma bisogna fare di più.

La proposte concrete dovranno uscire da un incontro con le parti sociali che la ministra del Lavoro informa essere stata fissata per l’ maggio, anche se fino alla sera precedente i sindacati non ne sapevano niente. Meloni non entra nei particolari ma da quel che anticipa e soprattutto dalla proposta di legge che il ministero della Giustizia, dopo averci lavorato per mesi, si appresta a presentare alle commissioni parlamentari la parola chiave sarà «prevenzione». L’inquilina di palazzo Chigi allude a «incentivi e disincentivi» per le imprese a seconda che rispettino o meno le norme di sicurezza, di formazione e diffusione della «cultura della prevenzione» nelle scuole, di rendere obbliogatoria l’assicurazione Inail introdotta dal governo. Obiettivo: «Un’alleanza tra istituzioni, sindacati e associazioni datoriali per mettere la sicurezza sul lavoro in cima alle priorità».

Senza nulla togliere alle ottime intenzioni non ci vuole molto a prevedere che i 600 milioni, che potrebbero lievitare sino a un miliardo, recuperati dall’avanzo di bilancio Inail non basteranno. Anche solo per limitarsi alla voce dedicata agli ispettori del lavoro, il desolante quadro attuale ne conta 2.108: uno ogni 28mila persone. Per un sistema di controlli efficace ce ne vorrebbero come minimo altri 3600 anche se per tenere davvero sotto controllo la sicurezza ne servirebbero più o meno 5900. Cifre che parlano da sole. L’opposizione concentra le sue frecciate sul passaggio dedicato ai salari. Ma a smentire Meloni è anche la stessa Lega e anzi è il sottosegretario leghista al Lavoro Claudio Durigon, che spiega la scelta di presentare un ddl sui salari proprio a partire dal dato che vede il potere d'acquisto scendere di 8 punti dal 2021.

La proposta della Lega, alternativa al salario minimo, sarebbe quella di ancorare i salari all’inflazione. In buon italiano si chiama scala mobile. In realtà non si capisce bene perché il ddl leghista dovrebbe essere in contrasto con il salario minimo: cosa impedirebbe di pagare salari meno indecenti e poi garantirne il potere d’acquisto adeguandoli all’inflazione? Ma, a parte questo particolare, la proposta di Durigon sarebbe ottima. Peccato che non abbia alcuna possibilità di essere approvata davvero e in questa formula.