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Il giudice istruttore che ha preso il posto di Michel Claise nell’affaire Qatargate, Aurélie Dejaiffe, il 24 ottobre scorso chiese al procuratore federale, Raphael Malagnini, di sollecitare la revoca dell’immunità all’eurodeputata belga Maria Arena. Una richiesta alla quale Malagnini rispose un mese dopo, il 28 novembre, sostenendo l’inutilità di tale mossa, in virtù della nazionalità belga di Arena. Un ragionamento che non fu fatto, però, nel caso di Marc Tarabella, anche lui belga e coinvolto nel caso solo sulla base delle dichiarazioni di Pier Antonio Panzeri, il “pentito” al quale la procura dice di non credere. Ma non solo: tale richiesta rappresenta una vera e propria anomalia, non essendo necessario, per la giudice, chiedere l’autorizzazione alla procura. Una inversione dei ruoli che fa il paio con un’altra coincidenza: il 25 ottobre, ovvero un giorno dopo la lettera di Dejaffe, Malagnini rese noto il suo addio alla procura federale, lasciando il caso per assumere l’incarico, assegnatogli dal Consiglio superiore di giustizia del Belgio, di revisore dei conti del lavoro a Liegi.
La lettera inviata da Dejaffe a Malagnini è uno dei tanti documenti contenuti nei quattro scatoloni di atti inseriti nel fascicolo di indagine dopo lo scandalo dell’audio depositato dalla difesa di Francesco Giorgi - ex braccio destro di Panzeri e marito dell’ex vicepresidente Eva Kaili - in procura. Audio nel quale il principale investigatore della vicenda ammette non solo di non credere a Panzeri, ma anche di aver tenuto fuori dal fascicolo molti degli atti utili alle difese.
Tra questi anche i verbali di perquisizione a casa di Arena e di suo figlio Ugo Lemaire, dove la polizia ha trovato soldi in contanti e tracciatori gps. E solo diversi mesi dopo queste perquisizioni i due sono stati interrogati, a carte ormai scoperte. Un’ulteriore disparità, in questa vicenda, rispetto al trattamento riservato agli altri indagati, finiti in carcere sulla base di dichiarazioni non verificate e a seguito del rinvenimento di somme in contanti. E sono proprio i soldi a fare la differenza, dal momento che nel caso di Tarabella la polizia non ha trovato nemmeno un centesimo.
Ma andiamo con ordine: il 20 luglio 2023 gli investigatori entrano in casa di Arena. Claise si è dimesso da un mese esatto, dopo che la difesa di Tarabella ha svelato gli affari tra il figlio del magistrato e quello di Arena, soci in un’azienda che commercializza cannabis legale. Il conflitto d’interesse è palese e il “Di Pietro belga” decide di lasciare. Un mese dopo, dunque, gli investigatori bussano alla porta dell’eurodeputata, trovando in casa un quaderno rosso con la scritta “S& D” - la sigla del suo partito, “Socialisti e democratici” poggiato su un mobile in camera da letto. È il cane poliziotto ad individuarlo e a farlo cadere a terra. Sul pavimento finisce così «una notevole quantità di denaro in contanti», in mazzetti organizzati «in tagli da 10, 20 e 50 euro». Quello da 50 è circondato da un elastico. Ma in camera da letto c’è anche un tracker gps, dotato di magnete, identico a quello trovato a casa di Lemaire, dove gli investigatori si imbattono in circa 280mila euro.
Nell’appartamento del giovane Ugo la polizia ci entra usando le chiavi trovate a casa della madre. I soldi si trovano sul tavolo del soggiorno, proprio davanti alla porta d’ingresso, mentre altri contanti sono custoditi in due scatole di plastica trasparenti sulla terrazza esterna accanto a diversi vasi e piante. Arena dichiara subito, durante la perquisizione, di possedere le chiavi del figlio con lo scopo di annaffiare, come fatto fino al giorno prima, le piante in terrazza. Proprio dove si trova il denaro, chiaramente visibile, appuntano gli investigatori, perfino dalla terrazza della stessa Arena. In casa di Lemaire, inoltre, ci sono anche sacchetti di plastica con dentro cannabis e una carta d’identità falsa, con la foto del giovane ma le generalità di un’altra persona. Con quel documento, secondo gli investigatori, Lemaire ha affittato un box, dove sono custodite quattro auto, intestate a diverse persone, tra le quali una nota alle forze dell’ordine per traffico di sostanze stupefacenti. La polizia ha anche analizzato il cellulare del giovane, trovando messaggi che confermerebbero l’ipotesi di traffico di sostanze «dalla Spagna verso il Belgio», si legge nel verbale di polizia.
Dopo le perquisizioni, però, nulla si muove. La prima a fare un passo è Dejaffe, che ad ottobre sollecita Malagnini, al quale, stando alla lettera, si era già rivolta in un incontro faccia a faccia. «Le conseguenze della presente indagine mi portano, come vi ho già comunicato oralmente, a dover considerare la sollecitazione della revoca dell’immunità della signora Maria Arena - si legge nel documento -. Pertanto, al fine di continuare la mia istruzione, vi sarei grato di fare il necessario per ottenere la revoca dell’immunità della signora Maria Arena». Un mese dopo Malagnini risponde telegrafico: «Non pensiamo che una tale richiesta sia giustificata nella misura in cui, trattandosi di un deputato europeo di nazionalità belga, tutti gli atti di indagine possono essere fatti con, per alcuni, l’autorizzazione della Prima presidente della Corte d’Appello di Bruxelles». Una giusta accortezza, che però non è stata concessa a Tarabella. Tutto si blocca, fino al 19 dicembre, quando Lemaire viene convocato in commissariato, dove sceglie il silenzio, denunciando la fuga di notizie. «Queste fughe di notizie - dichiara assistito dal suo avvocato - compromettono l’equità del processo giudiziario e violano i miei diritti fondamentali così come quelli dei miei cari.
A causa di questa situazione e della mancanza di fiducia che si è creata, non desidero rispondere alle vostre domande». La convocazione di Maria Arena, invece, arriva qualche mese dopo, il 9 febbraio. Quando gli atti d’inchiesta sono finiti ormai perfino in un libro.