Il rilascio del grande “pentito” Antonio Panzeri, agli arresti domiciliari dallo scorso sei aprile, è solo l’ultimo pezzo che cade nel fatiscente edificio del cosiddetto Qatargate.

Corruzione, riciclaggio, associazione a delinquere, lobbismo tossico per conto di malefici interessi stranieri; doveva essere l’inchiesta del secolo, il più grande scandalo nella storia dell’Unione europea, l’affaire destinato a espandersi “a macchia d’olio” che ne avrebbe scosso le fondamenta e dopo il quale nulla sarebbe stato più come prima. È stato al contrario un bruttissimo romanzo giudiziario, tutto scritto in pessimo stile nelle stanzette della procura di Bruxelles e rilanciato dal sensazionalismo famelico dei grandi media, un romanzo costellato da ripetuti abusi e violazioni, della presunzione di innocenza, del diritto alla difesa, del rispetto e dell’integrità degli indagati e persino della separazione dei poteri. Prime pagine dei giornali, aperture dei Tg, accigliati dibattiti sulla trasparenza dell’Unione e ridicole agiografie dei giudici eroi Europa hanno distorto la realtà sovrapponendo il consueto processo mediatico all’inchiesta vera e propria. Con effetti nefasti.

Il giudice sceriffo

Il protagonista assoluto di questo clamoroso flop è, anzi è stato, il giudice istruttore Michel Claise, titolare dell’inchiesta fino allo scorso giugno quando è stato costretto a dimettersi per un potenziale conflitto di interessi. Suo figlio infatti era in affari in una società di vendita di cannabis legale con il figlio dell’eurodeputata belga Maria Arena. Un pasticcio, ma in fondo uno degli aspetti meno gravi di tutta la vicenda. Personaggio emblematico del fervore giustizialista contemporaneo Michel Claise, è un magistrato fieramente affiliato alla massoneria con fama di sceriffo e di conclamate ambizioni letterarie, considerando che ha pubblicato una dozzina di libri tra saggi, romanzi storici e legal thriller.

Claise è un giudice mediatico, il più mediatico di tutto Belgio e si concede con grande facilità a televisdioni e giornali, rilasciando lunghe interviste con il suo classico abbigliamento casual, jeans, maglietta e maglioncino a v. Spesso è ospite di trasmissioni letterarie dove presenta e commenta le sue opere con estremo talento comunicativo. «Mi ritengo un umanista, una persona rivolta verso il prossimo», dice di sé con un pizzico di immodestia. Ma, come ha spesso ripetuto, si sente anche investito di una missione morale: «Estirpare la corruzione nel mondo». Per lui la politica è sempre colpevole, anche quando non commette reati e non è collusa con i corrotti lo è per omissione e sciatteria, perché «deve fare di più». Il suo modello operativo è la Procura nazionale finanziaria francese, specializzata nei reati di politici e colletti bianchi e nota, per citare il ministro della giustizia transalpino Eric Dupond-Moretti per i suoi «metodi da spioni e poliziotti». Come nell’inchiesta contro l’ex presidente Sarkozy, disseminata di illegalità, dalla intercettazioni tra Sarko e il suo difensore, ai blitz negli studi legali alla sorveglianza della corrispondenza digitale, il tutto avvenuto per anni all’insaputa degli indagat.

Il suo sistema per scovare le “prove” è invece vecchio come il mondo e purtroppo altrettanto efficace: ti tengo in prigione finché non parli e se denunci gli altri indagati avrai un conveniente sconto di pena. Così è stato con l’ex eurodeputato e lobbista Panzeri, minacciato da Claise e dai suoi collaboratori dell’inverosimile prospettiva di passare 15 anni dietro le sbarre se non gli avesse fornito «due nomi». Con la moglie e la figlia in stato di fermo, spossato e impaurito dopo ore di interrogatorio, assistito unicamente da un legale d’ufficio, Panzeri accusa i deputati europei Marc Tarabella e Andrea Cozzolino, diventando la gola profonda dell’inchiesta. È di pochi giorni fa la denuncia dei suoi avvocati che accusano la procura federale belga di aver estorto la confessione con la forza e l’intimidazione.

Il caso Kaili

Particolarmente crudele, ai limiti di quanto possa essere concesso in uno stato democratico, il trattamento riservato all’ex vicepresidente dell’europarlamento Eva Kaili. Rimasta quasi sei mesi in prigione, separata dalla figlia di nemmeno due anni (anche il compagno Francesco Giorgi collaboratore di Panzeri era in prigione), la sua custodia cautelare è stata degradante; l’avvocato Michalis Dimitrakopoulos ha raccontato che nei giorni successivi all’arresto le furono negate le coperte per ripararsi dal freddo, assieme all’uso della doccia, nonostante avesse il ciclo mestruale. Tenuta lontana per 72 ore dal suo difensore. Un caso talmente flagrante che sil caso Kaili è intyervenuta addirittura Amnesty International chiedendone la scarcerazione. Crollerà in un batter d’occhio si erano detti gli inquirenti, provando a giustificare la durezza della misura con un’esistente pericolo di fuga e di inquinamento delle prove. Ma Kaili non solo non è crollata di fronte a minacce e maltrattamenti di stampo “iraniano”, si è sempre dichiarata innocente rifiutando di tirare in ballo i colleghi: «Non avrei mai mentito e infangato qualcun altro per convenienza personale». L’ex vicepresidente del parlamento europeo ha denunciato poi il ruolo svolto dai servizi segreti belgi: dal fascicolo giudiziario emerge infatti che gli 007 di Bruxelles avrebbero spiato le attività dei membri della commissione speciale Pegasus (che indaga sull’uso dello spyware Pegasus usato dalle autorità del Marocco contro oppositori e attivisti), tutti eurodeputati, alcuni dei quali coinvolti nelle indagini. Che le spie del Belgio sorveglino degli eletti dal popolo su mandato di una procura è un fatto inquietante o, per usare le stesse parole di Kaili “il vero scandalo” dell’intera vicenda.

E le prove dove sono?

Escludendo la valigia con 250mila euro sequestrata a Panzeri e una...cravatta che Cozzolino avrebbe ricevuto in dono dall’ambasciatore del Marocco a Varsavia, in dieci mesi di indagini non è emerso nulla di nuovo, nessuna prova concreta della corruzione, tutto è infatti rimasto nel fumoso campo degli indizi e delle supposizioni. Eppure il teorema di fondo era suggestivo: deputati, funzionari e lobbisti dell’Ue messi a libro paga dal Qatar e dal Marocco per difendere e perorare i loro interessi politici ed economici nelle istituzioni comunitarie. I segugi della procura hanno lavorato mesi allo scopo incastrare i vari Panzeri, Kaili, Cozzolino e Tarabella, spulciando migliaia di documenti sulle loro attività in seno all’Ue, ma mai sono riusciti a individuare una votazione, una decisione, una semplice delibera o circostanza informale in cui Doha e Rabat avrebbero ottenuto benefici materiali dai presunti lobbisti.

La politica perde la testa

Impressionante è stata, nelle ore successive ai primi arresti, la reazione del mondo politico comunitario. Specie quella della presidente dell’europarlamento Roberta Metsola che, in un intervento in emiciclo dai toni apocalittici e francamente lagnosi parlò di «attacco alla democrazia europea», promettendo «tolleranza zero» e «nessuna impunità» per i protagonisti del Qatargate. Non prima però di far decadere l’immunità parlamentare della collega e vice Kaili, consegnandola alle grinfie di Claise. È la potenza dispiegata del processo mediatico, che nasce per influenzare l’opinione pubblica e finisce per trascinare nell’isteria forcaiola la stessa politica, ormai incapace di affidarsi ai principi dello stato di diritto e sempre più subalterna alle sirene del giustizialismo. Una perdita di identità e di ruolo molto più allarmante della stessa corruzione, vera o presunta che sia.